Sono due le parole che vengono pronunciate con maggior frequenza nei cinque atti di Macbeth. La prima è «notte». Dialogando o parlando tra sé e sé, i personaggi dicono spesso in modo esplicito che una certa azione si sta svolgendo, si è svolta o si svolgerà all’inizio, nel mezzo o sul finire della notte. E poiché in tali ore Macbeth e la sua ambiziosa consorte concepiscono (e Macbeth mette in atto, di persona o per mano di sicari) propositi omicidi che una volta realizzati danno origine a tormentose riflessioni, paure sempre rinnovate e ulteriori disegni di morte, l’oscurità che avvolge uomini e cose assume inevitabilmente anche un valore simbolico.
Nel testo shakespeariano c’è contrapposizione netta tra spazi interni (le sale dei castelli di Forres, Inverness, Fife, Dunsinane) e spazi esterni (l’accampamento di Duncan, la brughiera, la campagna vicina al bosco di Birnan, la pianura davanti al castello di Dunsinane). Nello spettacolo di Franco Branciaroli i cambiamenti di luogo sono indicati (ed è una risaputa variante dell’espediente in uso nei teatri elisabettiani) da scritte proiettate sulla parete di fondo della scena ideata da Margherita Palli: una specie di grande contenitore, completamente spoglio e di colore prossimo al nero, con gradini e pedane posti a livelli diversi. La storia è ambientata per intero in questo spazio tenebroso, dove i personaggi a volte emergono dal buio che poi li riassorbe come figure di un incubo notturno. (Ammirevole tenebrista, Gigi Saccomandi si dimostra per l’ennesima volta uno straordinario light designer).
La seconda parola che ricorre più frequentemente nei cinque atti della tragedia è «sangue». Dopo la breve scena iniziale delle tre «Fatali Sorelle» (più comunemente note come le «Streghe»), un «uomo insanguinato» (un capitano) racconta di come il valoroso Macbeth, «brandendo il ferro fumante di sanguinosa strage», abbia ucciso e decapitato in battaglia il rivoltoso Macdonwald. A partire da questo momento la quantità di sangue sparso da Macbeth crescerà in modo quasi ineluttabile: «Io mi sono inoltrato nel sangue fino a tal punto, che se non dovessi spingermi oltre a guado, il tornare indietro mi sarebbe pericoloso quanto l’andare innanzi».
Fatta eccezione per quelli di Duncan e delle guardie addette alla sua camera, gli assassini sono messi chiaramente in mostra. Il sangue non è soltanto nominato, è visibilmente effuso. «Macbeth» ha scritto Jan Kott nel suo famoso Shakespeare nostro contemporaneo (1961) «incomincia e finisce con una carneficina. Il sangue aumenta sempre di più, sommerge tutti, invade la scena. Senza questa immagine del mondo inondato di sangue la rappresentazione del Macbeth risulterà sempre falsa.» Oggi quest’ultima affermazione può far pensare al troppo cinema splatter che è stato prodotto a partire dagli anni Settanta. Deve averlo pensato anche Branciaroli, il quale ha deciso di trattare le azioni cruente alla maniera dei tragici greci, che le sottraevano allo sguardo dello spettatore. Una scelta che a mio parere ha troppo dissanguato il testo e la sua rappresentazione. Quanto al fatto che Shakespeare, dopo tre omicidi pienamente visibili, faccia morire il protagonista fuoriscena, e ne mostri alla fine solo la testa mozza, si direbbe che Branciaroli l’abbia considerato uno sgarbo personale.
Da incorreggibile mattatore, ha quindi voluto che Macbeth, dopo l’ultima uscita di scena indicata nel testo, riapparisse mortalmente ferito, e stramazzasse al suolo pancia all’aria – la testa saldamente attaccata al collo ma sporgente oltre il limite della pedana – mettendo in tal modo a rischio – nel pensiero di chi lo trova fisicamente appesantito e presta fede alla voce secondo cui Macbeth è una tragedia iettatoria – sia le proprie ossa che la scenografia poveristica di Margherita Palli.
È la recitazione nel suo complesso il vero dato negativo dello spettacolo. Non farò l’elenco degli attori. Voglio però esprimere tutta la mia simpatia a Tommaso Cardarelli (Macduff), che il regista-primattore – col quale lavora ormai da molti anni – ha perfidamente costretto a frequenti e stridule esplosioni vocali che dovrebbero esprimere dolore, disperazione o rabbia, e che invece risultano imbarazzanti o addirittura comiche.
Non meno imbarazzanti o comiche mi sono sembrate anche alcune esplosioni vocali di Branciaroli, per lo più impegnato, come al solito, in virtuosistiche variazioni di tono e di timbro che suonano quasi sempre di un’assoluta, narcisistica esteriorità. Branciaroli è veramente intenso solo a partire dall’annuncio della morte di Lady Macbeth (Valentina Violo), quando sembra invaderlo una sconfinata stanchezza che si manifesta anche attraverso un deciso abbassamento della voce.
Ma qui siamo quasi al termine della recita, e allo spettatore turbato dalla desolazione di un uomo che si dice ormai «stanco del sole» riesce difficile dimenticare il gigione che lo ha preceduto.