*** La La Land, di Damien Chazelle, con Ryan Gosling, Emma Stone, J.K. Simmons (Stati Uniti 2016)
Oscar 2017 annunciato grazie alla bellezza di quattordici nomination, premio per la Migliore Attrice all’ultima Mostra di Venezia a Emma Stone, il successo di pubblico come di critica di La La Land non sorprende più di tanto. Poiché il secondo film (dopo il già interessante Whiplash del 2015) del regista appena trentenne Damien Chazelle sembra nato apposta per sedurre un arco vastissimo di spettatori.
Il fascino del film non deriva tanto, infatti, da una storia che la commedia cinematografica ha sfruttato fino dalla sua nascita: un’antipatia a prima vista, che progressivamente si muta in legame amoroso. È quella tra Mia (Emma Stone) – che fa la cameriera nei pressi della Warner, frequentando però tutte le audizioni nella speranza di avviare la carriera di attrice – e Sebastian (Ryan Gosling), dal tragitto quasi parallelo, visto che tira a campare nell’ingrata professione del pianista da bar, ma nella speranza di aprire in futuro un club di jazz tutto suo.
Il cuore che pulsa, e probabilmente spiega le ragioni del grande successo del film, sta però in una sua sorta più preziosa di stato di grazia. Che gli permette di proiettarsi, con felicità, una bella dose di talento e anche di spregiudicatezza (magari a rischio di sfociare nel nulla) in tutta una serie di direzioni. In parte tradizionali: come in quel suo modo, pieno di grazia e di qualità, di resuscitare un genere che si credeva morto (oltre che non sempre amato da tutti) come la grande commedia musicale.
Altre volte, nel rifiuto del semplice omaggio condito di nostalgia: per deviare in una specie di sorprendente modernismo, uno stile spettacolare ma volentieri tentato dall’esprimere dei temi e delle preoccupazioni attuali e tutt’altro che scontate. La La Land è un film che poteva limitarsi ad essere una favola; è invece capace di rivitalizzarsi nella riflessione sociale come nell’indagine psicologica.
Così, la passione di Chazelle per una musica autentica, per un’epoca basata su altri valori, per un’estetica meno sbrigativamente tradotta con degli effetti digitali, e non da ultimo per dei personaggi veri, la si recepisce dalla minuzia, priva di ogni sottolineatura didattica, di ogni sua immagine. Anche perché impregnata di quel senso di libertà che alimentava (come forse mai più da allora) i capolavori dei musical di Busby Berkeley, Vincente Minnelli, Stanley Donen, Jacques Demy. Allo stesso tempo altri risvolti del film rimandano a universi espressivi quasi antitetici, pensiamo al cinema di Max Ophuls o a un Woody Allen senza le sue battute, alle tinte del Francis Coppola di Un sogno lungo un giorno, o addirittura a David Lynch, forse per l’ambientazione che ricorda il magnifico Mullholland Drive.
L’impatto del film è immediato nella straordinaria dinamica estetica e musicale del suo incipit che scaturisce, quasi inopinatamente, dalla più banale delle situazioni. Un immenso ingorgo mattutino sull’autostrada che conduce alla Los Angeles del sogno hollywoodiano e che si trasforma in un infinito piano-sequenza: con gli automobilisti che, al suono delle autoradio, escono dai veicoli incolonnati per liberarsi in una gioiosa, solare coreografia di musiche e danze. Ma tutto ciò, in assenza dei protagonisti, non sarebbe che un sapiente esercizio di stile. Ryan Gosling che balla e canta è talmente impacciato da riuscire a risultare toccante. In quanto ad Emma Stone, l’eroina di Woody Allen e di Inarritu riesce splendidamente, nella splendida trasparenza del viso, senza per questo dimenticare le movenze sexy, evidenziando così in profondità il dinamismo sfrenato e forse anche qualche rischio d’edulcorazione del film.