Milano, 28 settembre 2016, Gianni Berengo Gardin nello studio/archivio Berengo Gardin (Foto Luca Nizzoli Toetti)


L’ultimo dei comunisti

A colloquio con il grande reporter italiano Gianni Berengo Gardin, che nel suo curriculum vanta anche delle radici ticinesi
/ 30.07.2018
di Ada Cattaneo

«La mia vita senza macchina fotografica non so cosa sarebbe stata». Esordisce così Gianni Berengo Gardin, che dalla sua Leica non si separa mai. Tutta un’esistenza dedicata al reportage: «Ho avuto una vita bellissima e lo devo alla fotografia. Facevo quello che desideravo fare e per di più mi pagavano».

Nato nel 1930, Berengo Gardin è uno dei più grandi fotografi degli ultimi decenni. Ha un approccio rigoroso alla fotografia, quasi intransigente. Il reportage è il genere che ha sempre prediletto. Abolirebbe per legge i programmi di fotoritocco; li considera un mezzo per compiere truffe, che nessuno ammette. Il digitale non è neppure preso in considerazione: per lui la pellicola è fondamentale, considerato che lavora per conservare ogni scatto. Il suo archivio comprende un milione e ottocentomila immagini. Fra queste, racconta, soltanto quattro sono state costruite a tavolino, mettendo in posa i modelli e costruendo l’immagine così come la richiedeva il committente. Tutto il resto è immortalato dalla vita reale.

«Lugano per me è stato un luogo importantissimo: mia mamma era di Lugano. La mia arteriosclerosi galoppante mi permette di ricordare poco, ma so per certo che i suoi genitori avevano un negozio di ferramenta in Via Nassa. Io ho vissuto tre anni a Lugano e poi ci sono tornato sovente anche in seguito. Qui c’era mio fratello Sergio. E poi le prime macchine fotografiche le comprai proprio a Lugano, nel negozio di Christian Schiefer, lui stesso un fotografo molto bravo. Abitavamo, con la mia famiglia, a Viganello e le mie prime fotografie – brutte fotografie – furono fatte al Parco Ciani. Proprio lì, sul lago. Avevo ventidue anni»

Cosa faceva negli anni in Ticino?
Lavoravo alla Romantica, che credo ormai non esista più. Allora era una sorta di stabilimento balneare. Prima cominciai come bagnino alla spiaggia, nel periodo in cui ero studente, verso i diciotto anni. Poi ho lavorato al ristorante, come direttore di sala, anche con l’incarico di sorvegliare le entraîneuse e i loro accompagnatori.

Però i primi anni della sua vita li aveva trascorsi in Liguria.
Sì, sono nato per caso in Liguria, dato che mia mamma gestiva a quell’epoca l’Hotel Imperiale. Era un grande albergo di lusso a Santa Margherita Ligure, dove venivano a soggiornare anche i Savoia. Poi, con la guerra, fu requisito dalle truppe tedesche che lo utilizzarono come sede del loro comando e lo ridussero in condizioni tremende. Dopo la guerra, mia madre decise di abbandonare quel lavoro. Quindi nacqui a Santa Margherita e lì rimasi fini ai sette anni, ma la mia formazione è veneziana. Mio padre era veneziano e fin da piccolo andavo tutti gli anni, d’estate, dalle mie zie al Lido di Venezia. Dopo la guerra, quando papà tornò dall’India, dove era stato prigioniero degli inglesi, ci trasferimmo a Venezia. Ho vissuto lì tanti anni e sono molto legato a quella città.

Ripercorrendo quelli che sono stati i luoghi della sua vita, anche Parigi ha avuto un ruolo essenziale: qui ha avuto modo di conoscere alcuni di quei fotografi che poi sarebbero stati i suoi maestri.
Sì, trascorsi alcuni anni in Francia, dal 1954. Ci arrivai un po’ per caso: devo premettere che una volta i genitori erano molto severi, non come avviene adesso. A me non piaceva studiare, anzi odiavo studiare. Poi me ne sarei pentito, ma ormai era fatta. Papà mi disse: «Se studi ti mantengo all’università. Se non vuoi studiare, ti arrangerai da solo». Quindi andai a Parigi, prima lavorando come cameriere e poi in un grande albergo, alla reception. Dopo queste prime esperienze, con Parigi ho sempre mantenuto intensi contatti e la mia formazione fotografica la ricevetti proprio li. È dove ho conosciuto Doisneau, Daniel Masclet e molti altri. Ma il mio vero maestro è stato Willy Ronis.

Come lo conobbe?
Frequentavo a Parigi un club di fotografi che si chiamava «Trente et quarante», che accettava sia membri professionisti che amatori. Ogni settimana alcuni fotografi erano invitati a presentare il loro lavoro e qui incontrai Willy Ronis. Ma avevo in realtà già avuto modo di conoscerlo a Venezia, quando lavoravo nel negozio dei miei genitori. Avevano allora un negozio di perle e vetri di Venezia: io lavoravo lì e lui veniva spesso in città a fotografare.

Fu in quegli anni veneziani, quando lavorava al negozio di famiglia, che passò a occuparsi di fotografia per mestiere e non più solo come amatore?
Sì, in quegli anni. Tutto è in qualche modo legato alla Svizzera. Infatti, la persona che mi convinse era il direttore di una rivista edita a Basilea. Si chiamava «Camera» ed era allora la più importante rivista di fotografia al mondo. Il direttore veniva spesso a Venezia in occasione delle Biennali: l’avevo conosciuto e dopo poco eravamo diventati amici, così gli esposi i miei dubbi sull’idea di abbandonare il negozio, che rendeva bene, per fare invece il fotografo. Non sapevo come sarebbe andata a finire e se ce l’avrei fatta. Lui mi diede molti consigli e insistette perché facessi della fotografia il mio lavoro. Si chiamava Romeo Martinez.

Martinez fu determinante per molti altri fotografi. Cartier Bresson disse che era stato il «confessore» di molti fotografi: li conosceva meglio di quanto loro conoscessero sé stessi. Presumo che abbia insistito con lei dopo avere visto le sue foto.
Sì, aveva visto le mie foto. E poi mi disse: «Vedrai che ce la fai». In effetti, così è stato e non è andata male.

Come cominciò a lavorare come professionista?
Non fu difficile perché ero già conosciuto come fotoamatore. Poi ho avuto la fortuna di conoscere grandi personaggi che mi hanno commissionato dei lavori, come Cesare Zavattini e Renzo Piano. Con quest’ultimo ho lavorato quindici anni, per fotografare le sue architetture. Anche per Adriano Olivetti ho lavorato quindici anni. Collaborai anche con Günter Grass: bellissimo è il suo testo per il libro che ho realizzato sugli zingari [La disperata allegria, ndr]. Questi e altri incontri hanno facilitato il mio lavoro, le mie amicizie e la mia formazione. Ma voglio ricordare un altro passaggio in cui la Svizzera fu essenziale: la casa editrice La Guilde du Livre di Losanna mi pubblicò un libro (in cui erano contenuti anche testi di Mario Soldati e Giorgio Bassani) che non ero riuscito in nessun modo a realizzare in Italia, ma a cui tenevo moltissimo. Fu un passaggio importante per la mia affermazione.

Quale fu il rapporto con Zavattini?
Abbiamo fatto due libri insieme: uno di questi era dedicato proprio al suo paese, Luzzara, in Emilia. Ci siamo frequentati a lungo e io amavo il suo lavoro: più che il suo cinema, amavo Zavattini scrittore. L’ambiente culturale che frequentavo con lui, così come con altri autori con cui ho lavorato, è stato determinante per me: anche se a scuola ero un pessimo studente, ho poi imparato molto da questi personaggi.

Invece, per Adriano Olivetti, che lavori svolse?
Ho fotografato tutte le fabbriche, sia le architetture sia le lavorazioni di fabbrica. Si trattava di veri reportage.

Qual è stato il rapporto con la fotografia d’architettura? È un settore a sé, di cui lei si è occupato molto.
Sì. Bisogna dire che ero molto amico di Gabriele Basilico e lui mi ha insegnato a fotografare l’architettura, anche se io non so se è davvero il mio ambito. L’ho fotografata molto, per molti architetti noti e per il Touring Club. Ma io sono un fotografo di reportage: a me interessano l’uomo e le sue attività, oltre all’ambito del sociale, perché la mia formazione politica è comunista. In realtà sono tuttora comunista, probabilmente uno degli ultimi rimasti. Questo mi ha portato a interessarmi al reportage in quanto mezzo per indagare sull’uomo. Tutto il mio lavoro, in fondo, è stato a sfondo sociale. Quando si dice «sociale», si pensa sempre che si debbano affrontare solo le condizioni di chi muore di fame, ma invece tutto è «sociale». Per questo credo che il lavoro più importante fu quello con Franco Basaglia per denunciare la situazione dei pazienti all’interno dei manicomi. Quel reportage e il libro che realizzammo con Giulio Einaudi sarebbe poi servito a fare approvare la Legge Basaglia che permise la riforma degli ospedali psichiatrici.