L’oggetto messo in scena

Alla Fondazione Rolla di Bruzella affascinanti spunti di riflessione intorno al concetto di verità
/ 29.05.2017
di Gian Franco Ragno

Non più paesaggi e nemmeno ritratti. L’esposizione corrente alla Fondazione Rolla prende in esame l’oggetto in sé (in inglese, «it») in un percorso che procede per produzioni fotografiche partendo dall’epoca classica per arrivare al contemporaneo. 

Il punto di partenza di questo originale approccio è rappresentato da alcune considerazioni dello storico della fotografia John Szarkowski, riportate nell’abituale e snello catalogo a disposizione dei visitatori. Successore del grande Edward Steichen alla guida della sezione fotografia del Moma (Museum of Modern Art di New York), carica che mantenne dagli anni Sessanta ai primi anni Novanta, Szarkowski diede un impulso fondamentale nella considerazione della fotografia in ambito museale, legittimandone quindi a sua volta il collezionismo e il mercato nascente.

Profondo conoscitore di Eugène Atget, nel 1972 Szarkowski, tra le molte esposizioni, curò anche un’importante collettiva intitolata New Documents, che fece conoscere Diane Arbus. Ad oggi le sue produzioni vengono lette mettendo in luce le sue contraddizioni: la sua visione poneva al centro gli autori americani (che di fatto costituivano la base della collezione fotografica) eppure restava troppo riduttiva rispetto alle conflittualità sociali. 

A Bruzella l’esposizione conta alcune tendenze artistiche ben rappresentate dalla collezione: dai grandi classici americani (Edward Weston) alla poco successiva «Nuova oggettività tedesca» (Albert Renger-Patzsch, Hans Finsler e Ruth Hallensleben, quest’ultima vera riscoperta della Fondazione, che le dedicò la sua seconda esposizione) che gettò le basi fondamentali dell’approccio contemporaneo al mezzo fotografico. 

Costituiscono un caso a sé stante alcuni grandissimi nomi della storia di questa disciplina, come quello di Irving Penn: il colto e lucidissimo esteta americano, sposato con la meravigliosa modella Lisa Fonssagrives, capace di elevare a modello qualsiasi oggetto, anche il più banale, allorché finito nei rifiuti. Alcuni mozziconi di sigaretta, una carta da gioco lasciata per terra, raggiungono lo statuto di natura morta contemporanea attraverso raffinatissime stampe virate al platino. Oppure ancora Aaron Siskind: passato dal fotogiornalismo sociale della Photo League alla composizione astratta, qui con alcune immagini di oggetti ritrovati sulla spiaggia – soggetti che tradiscono un interesse per la poetica del Surrealismo così come, soprattutto nei risultati, per l’Espressionismo Astratto del dopoguerra. 

Sono presenti anche opere più recenti, di chiara impronta concettuale, in cui il soggetto-oggetto – spesso banale, di recupero oppure prodotto da altri e poi riutilizzato – passa in secondo piano rispetto alla progettualità dell’artista che ne determina l’uso e il valore estetico: da Franco Vimercati – qui con la serie delle bottiglie e una celebre «zuppiera» che è stato il suo unico soggetto per circa un decennio – a un lavoro tra i più recenti di Luciano Rigolini.

Ma accanto ad artisti contemporanei, come contrappunto e come d’altronde è l’abitudine nelle esposizioni della Fondazione Rolla di Bruzella, non mancano alcune fotografie di autori anonimi ma sempre di grande qualità artistica, capaci di dialogare e punteggiare il fil rouge della collettiva. 

Si può dire che la fotografia, sin dai suoi esordi – che corrispondono a quelli della ferrovia – abbia sempre amato mettere in risalto le qualità dell’oggetto in sé, tanto più quando si tratta di un manufatto inedito, che esprime e incarna lo spirito dei tempi nuovi e lucenti. La fotografia ha celebrato e incarnato anche un certo feticismo per la merce, creando di fatto le basi della pubblicità e fornendo mattoni al castello delle vanità e dei desideri. Tuttavia è in tempi più recenti – in un’epoca dominata dal digitale, in anni di dematerializzazione del lavoro e di narrazione della realtà fornita dai media su schermi – che essa trova più difficoltà, come avrebbe detto Szarkowski, a «forzare la realtà per raccontare la verità». Una verità complessa, che ha bisogno forse di più di un’immagine per essere capita ed afferrata.