È quasi il 25 dicembre del 1999 in Giappone. Nelle inquadrature di Beauty and Strenght vediamo, all’ingresso di un giardino d’infanzia, farsi strada un tentennante Babbo Natale. Armato di un bastone da cui grondano grappoli di campanelli, batte contro il legno della porta per attrarre i bambini che, un attimo prima, cantavano la versione nipponica di Stille Nacht nell’aula magna. Con passo incerto, percorre il corridoio e subito lo circonda una piccola folla. Le sue mani grandi, nodose, volteggiano delicatamente sulle teste: «Fate attenzione quando attraversate la strada», si raccomanda. «E copritevi bene, la notte!»
I bimbi sembrano incuriositi dalla sua figura magra, che ha il viso nascosto da una maschera dalla barba pendula. Ma non è certo la prima volta che Kazuo Ōno (Hakodate, 1906 – Yokohama, 2010), probabilmente il più grande danzatore del secolo, fa una di queste visite natalizie. Potrà sembrare strano, ma alcune fotografie conservate presso l’Ōno Dance Studio Archives lo ritraggono in queste vesti già negli anni 50, quando assieme al ribelle Tatsumi Hijikata si apprestava a compiere una delle più radicali rivoluzioni della storia del teatro: la danza butō.
Era nato in una famiglia di pescatori, su un’isola a nord del paese. Mentre suo padre era una figura terrena, radicata nella concretezza del lavoro, la madre, al contrario, era una donna dotta e di pensiero; sarà lei a fargli conoscere la cultura occidentale, la musica e la letteratura: «Quando avevo tre, quattro anni», ricorda nelle pagine di Nutrimento dell’anima, «mi leggeva le storie sui fantasmi di Lafcadio Hearn. (...) Quando pronunciava la parola «principessa», lei stessa si mutava nello spettro della principessa, coinvolgendo tutto il corpo nella narrazione. Una storia raccontata con emozione ha la capacità di far entrare gli uditori nel mondo del racconto. È quello che anche noi desideriamo fare danzando».
Ma la danza nella vita di Kazuo non arrivò subito. Dapprincipio dedito a un’intensa attività sportiva, insegnò a lungo ginnastica percependo però, al contempo, i limiti di una disciplina che concepiva il corpo diversamente da ciò che intimamente sentiva. È in quello stesso periodo che si convertì al cristianesimo; svolta spirituale che segnò in modo decisivo, oltre che la sua persona, il suo percorso espressivo.
Seguì le prime lezioni a trent’anni; fra le correnti che più lo coinvolgevano c’era la danza espressionista tedesca, allora sviluppata da interpreti quali Takaya Eguchi, con cui studiò cinque anni. Ma a dispetto dell’indiscusso talento, nel 1938 il suo percorso ebbe una battuta d’arresto: chiamato alle armi fu mandato al fronte, dove sperimentò la «falsità della guerra».
«Kazuo», racconta il figlio Yoshito, anch’egli danzatore, «fu costretto a rimanere in terra straniera per nove anni». Ma qui, in un campo di prigionia, trovò un modo di lasciare il conflitto «sullo sfondo»: «È stato allora che ho cominciato a danzare (...). Ecco dunque: lì organizzavano dei concorsi teatrali. Io partecipai ballando con una maschera ricavata dal guscio di una noce di cocco dipinto di bianco. E vinsi il primo premio (...) roba da mangiare, banane in particolare».
Al suo ritorno riprese quanto aveva interrotto e salì sul palco dimostrando grandi capacità. È allora che conobbe Tatsumi Hijikata, un giovane proveniente dalle misere realtà contadine di Tohoku. Questi, che fu, in fondo, più di Ōno, l’autentico ideatore del butō, aveva una personalità opposta: ateo, diviso fra l’amore per la letteratura maledetta – Sade, Rimbaud, Lautréamont, Genet, Artaud – e la danza, si proponeva la ricerca di un corpo che incarnasse, come scrive Maria Pia D’Orazi, una «doppia negazione: il rifiuto della danza occidentale (...) e il rifiuto della danza tradizionale».
Sulle tracce di una fisicità altra, quasi pre-espressiva, capace di fare emergere l’autenticità di una materia primordiale, più interessato alla gestualità di bambini e handicappati che non a quella di impettiti ballerini, dopo un primo esperimento artistico col figlio Yoshito, Hijikata avvia la sua collaborazione con Kazuo. Di colpo, allora, nell’arte di Ōno appare la dimensione della morte, poiché Hijikata, che vede nel destino dei reietti il centro dell’esistenza, gli propone di travestirsi da donna per interpretare Divine, la vecchia prostituta omosessuale che agonizza nel romanzo Notre-Dame-des-Fleurs di Jean Genet. Per circa un decennio da questo connubio nasceranno una serie di dirompenti spettacoli che da un lato costituiranno la genesi di ciò che oggi chiamiamo butō (il cui significato è «danza, tremito della terra, strisciare»), dall’altro vedranno successivamente fiorire una generazione di importanti danzatori. Trascorso questo periodo, Ōno si allontanò dalle scene per altri dieci anni. Al di là di alcune sporadiche apparizioni, si dedicò a un lavoro introspettivo di esplorazione delle proprie origini lavorando col cineasta Chiaki Nagano.
Quando torna sul palco è ormai il 1977. Ha settantun anni, ma qualcosa di profondo lo spinge ancora alla ribalta. Ispirato da una fotografia che immortala Antonia Mercé y Luque, ballerina latinoamericana da lui vista quando era ragazzo, con la regia di Hijikata compone il commovente assolo che lo rivelerà al mondo: La argentina.
Paradossalmente forse è qui che è iniziata la sua danza. Infatti, da allora ha realizzato un insieme di miracolose performances che rappresentano un caso eccezionale nella storia del teatro. Quasi cercasse, col movimento, di risalire al principio stesso della vita, Ōno – l’anziano che a Natale amava travestirsi per i bambini del giardino d’infanzia – fino alla sua morte ha cavalcato ogni giorno lo spazio scenico come fosse la placenta di una grande madre, sospesa nell’infinità del cosmo.