Dove e quando
L’incontro tra due mondi, Museo di Valmaggia, Cevio, orari: ma-do, 13.30-17.00, fino a ottobre 2020, www.museovalmaggia.ch 

R. Gallay, Le portatrici di legna, s.a., olio su tavola

Lo sguardo dell’altro

La Valmaggia degli anni 40 nei quadri, nelle fotografie e nei diari di Robert Gallay e Evelyne Gallay-Baron
/ 10.06.2019
di Ada Cattaneo

La vicenda del Fondo Gallay è iniziata nel 2017, quando un cospicuo corpus di dipinti, disegni, diari e fotografie è stato donato al Museo di Valmaggia. Si trattava dei documenti che testimoniavano dei soggiorni in Ticino di una coppia di artisti ginevrini, Robert Gallay (1907-1986) ed Evelyne Gallay-Baron, e del loro bambino Alain.

Siamo negli anni della Seconda guerra mondiale: la famiglia Gallay, che in precedenza era solita trascorrere le proprie vacanze in Savoia, deve scegliere una meta alternativa, data la chiusura dei confini. Si decide quindi per la Svizzera italiana. La sorella di Evelyne abita nel Mendrisiotto, ad Arzo, ed è proprio questa la prima località dove giungono i Gallay. Ma nelle loro lunghissime gite – a piedi, altre volte in bus e soprattutto in bicicletta – i tre si affacciano presto anche in Valmaggia e nelle sue valli laterali. Prato Lavizzara non attira subito il loro interesse. Anzi, dapprima li scoraggia l’asprezza del luogo, che viene definito come «sinistro», e le poche ore di sole al giorno che lo riscaldano. Eppure, nonostante la prima impressione, è proprio qui che i tre trascorreranno l’estate dall’anno successivo, tornando regolarmente fino al 1946. Soggiornano presso la scuola elementare del paese, vuota nei mesi estivi: qui si accontentano di tre materassi stesi a terra e di una cucina a legna improvvisata. Con gli abitanti del paese non si sviluppano dei veri e propri legami, tranne che nel caso della famiglia Poncetta, che gestisce la drogheria: in mostra i ritratti di Bruna e Luciano testimoniano dell’amicizia con il piccolo Alain, che grazie a loro scopre la campagna che circonda il paese, fra giochi e lavoro nei campi. Alain Gallay, nel saggio che ha scritto proprio per il catalogo della mostra, racconta quanto questi momenti siano stati seminali per determinare la sua passione per le scienze naturali e per la storia. Dalle sue parole il Ticino si presenta quale «esperienza iniziatica» che concorrerà poi a determinare la sua carriera accademica come etnologo. Veri e propri esperimenti di vita sul campo, di studio del terreno che il bambino compie insieme ai suoi genitori. Va anche tenuto in considerazione che la valle ticinese si presentava come una sorta di oasi felice, per un bambino abituato alla situazione ginevrina, dove la guerra era certamente una presenza più vicina ed inquietante.

Robert ed Evelyne sono affascinati dalla genuinità di questi luoghi e dei suoi abitanti. «Scende la sera. Rientriamo ed è una storia meravigliosa: incrociamo una coppia di giovani ed è un sorriso, ma un sorriso vero, lo stesso che si vede sul volto della Madonna. Vi si legge la stessa bontà» scrive Robert nei suoi diari. I due sono affascinati da questa vita rurale che ritornava in auge nel periodo bellico: seppure il processo di modernizzazione della Valmaggia fosse già stato intrapreso, gli anni della guerra imponevano un arresto forzato allo sviluppo delle condizioni di vita. Si ritorna quindi alle vecchie tradizioni agricole, si recuperano saperi che erano sembrati ormai superflui, ma che ora si rendono necessari. Bisogna di nuovo provvedere al proprio sostentamento, senza poter confidare sugli approvvigionamenti in arrivo dall’esterno. Un esempio significativo è il ritorno alla coltivazione della segale, passata in disuso nei decenni precedenti ed ora ripresa, grazie alla resistenza della pianta al clima d’altura.

Dalle ricerche dei due artisti emerge un particolare interesse per l’architettura alpina, testimoniato dalle numerose raffigurazioni di edifici presenti fra le opere del Fondo Gallay, che si aggiungono ai ritratti di familiari e di paesani. Questa attenzione è motivata anche dagli studi di architettura che entrambi i coniugi avevano svolto nel corso della loro formazione. Sono particolarmente affascinati dall’armonia raggiunta da questo stile spontaneo, che a loro modo di vedere sarebbe irraggiungibile anche da parte dei più colti architetti formatisi nelle scuole cittadine. Li impressiona, poi, il contrasto di questi umili edifici in pietra con la sontuosa architettura religiosa, anch’essa soggetto di numerosi schizzi e dipinti.

Dal punto di vista storico-artistico è interessante fare rientrare l’esperienza dei Gallay in quella schiera di pittori e di scultori che si erano appassionati al Ticino nel corso del Novecento. Ma un aspetto che non sempre emerge è che essi non si limitavano a fermarsi nelle più note zone del Verbano e del Ceresio. Molti di loro si appassionarono alle valli ticinesi, quasi sull’esempio dei viaggiatori che nel secolo precedente avevano percorso le vallate alpine alla ricerca del sublime e della montagna nella sua più selvaggia forma.

In questo senso non stupisce venire a sapere che l’interesse della famiglia Gallay svanisce del tutto al termine della guerra, quando la modernità torna a riempire e a trasformare questi luoghi, che per alcuni anni erano tornati ai propri albori, alla propria essenza. Nel 1946, arrivati a Fusio, i tre definiscono il villaggio come qualcosa che non ha «più niente del Ticino». Sono infastiditi da questo rapido capovolgimento: cercavano i luoghi dove l’uomo vive in profondo e armonioso contatto con la natura e, da un anno all’atro, vedono scomparire questo «idillio».

Molto più tardi, sarà Riccardo Carazzetti a ristabilire il contatto fra i Gallay e il nostro cantone. Già direttore dei Musei della Città di Locarno, purtroppo scomparso di recente, egli si trovò infatti ad essere studente di Alain Gallay: quel bimbo che aveva trascorso le proprie estati in Val Lavizzara era poi diventato professore di Antropologia ed Archeologia all’Università di Ginevra. Desideroso di restituire al territorio la gioia di quei soggiorni, portatori di tanti insegnamenti, egli sceglie di donare tutta la produzione dei genitori relativa ai periodi trascorsi in Ticino. Insieme a Carazzetti destina il fondo proprio al Museo di Cevio, dove è in corso una mostra, sostenuta dal Percento culturale Migros Ticino, che celebra tutta l’importanza della donazione: un insieme completo di documenti, fuori dal comune per l’aiuto che offre nella ricostruzione non solo delle vicende familiari, ma anche del volto di quelle valli negli anni della guerra. Le immagini, fra schizzi, dipinti e fotografie, e i diari aiutano a ridare forma a paesaggi ed edifici che oggi sono completamente cambiati o addirittura scomparsi.

Ma in definitiva, ciò che più conquista di questa vicenda è il capovolgimento del paradigma che stravolge la nostra prospettiva: il territorio ticinese ci appare per un istante attraverso lo sguardo dell’altro, visto dagli occhi dello «straniero». L’approccio quasi etnografico dell’artista ci spiega la fascinazione per questo luogo, così familiare, ma anche estraneo ed incantevole alla stregua di tante mete lontane.