Psicoanalista e saggista di fama mondiale, Luigi Zoja è noto per un testo fondamentale sul comportamento umano: Paranoia, la follia che fa la storia tradotto in molte lingue, continuamente ripubblicato. Dopo gli studi negli anni 60 si è formato e ha insegnato allo Jung Institut, è stato per molti anni presidente dell’Associazione Junghiana internazionale, ha insegnato e abitato a New York, in Sudamerica e recentemente ha tenuto corsi in Cina.
Da anni osserva e denuncia la mutazione del nostro vivere. Ricordiamo fra i numerosi testi il bellissimo La morte del prossimo, sugli effetti della globalizzazione e la società di massa, sull’indifferenza e la lontananza e la scomparsa di quel modo di relazionarci che nel mondo pre-tecnologico non escludeva gli affetti. Oppure ancora il recente Vedere il vero e il falso, indagine della verità nella fotografia del 2018, sugli inganni occulti che non cogliamo nelle immagini e che possiamo scambiare per verità obiettive. Gli abbiamo chiesto come adattarsi a questo enorme improvviso sovvertimento.
Solo qualche mese fa nessuno avrebbe creduto a chi preannunciava lo scenario odierno. Eppure nel 2018 un gruppo di esperti aveva coniato un nuovo termine per indicare una pandemia che in un futuro imprecisato sarebbe passata dagli animali all’uomo, ma quando l’OMS comunicò la notizia al mondo, questa fu accolta come una fra le molte. Come possiamo spiegarlo?
In sé niente di nuovo. Gli umani sono più irrazionali che razionali, la psicoanalisi lo dice dai tempi di Freud: la psiche è come un iceberg, 1/10 è visibile, corrisponde all’io, alla coscienza, nove decimi corrispondono all’inconscio. Ma questo vale per i singoli cittadini. Ciò che appare più grave è che gli Stati, i loro Ministeri della Sanità non si siano preparati in questi due anni.
Ci aiuta a capire perché?
Posso immaginare che in Italia semplicemente manchino i soldi per la prevenzione. Gli stipendi sanitari sono stati tagliati all’inverosimile: approfittando dell’Unione Europea i medici emigrano in Inghilterra, gli infermieri in Germania. Di recente gli psichiatri ticinesi mi hanno invitato per una conferenza, non solo erano tutti italiani, ma venivano da Roma in giù. Questo confermerebbe da un lato che in Nord Italia la sanità non è male, dall’altro che il sistema svizzero dispone di maggiori mezzi. Ma ciò non risolve tutti i problemi, ci sono buchi che vanno riempiti e particolarmente in psichiatria, specialità in cui si guadagna di meno.
Dipendiamo totalmente dai mass-media, alle cui notizie le persone reagiscono in modi diversi. Esiste un comportamento ottimale?
È ovvio che il comportamento ottimale consiste nel seguire le direttive dell’autorità e degli esperti, ma all’ansia non si comanda: non si può ordinare a un bambino di non aver paura del buio. I nostri istinti restano quelli dell’uomo del neolitico, ancora nomade, cacciatore-raccoglitore che doveva mantenersi sempre in guardia: Finché la vita normale funziona, gli adulti rimuovono la paura, ma con un pericolo sconosciuto molti ritornano bambini.
Rispondere nel modo più equilibrato non è dunque possibile a tutti?
Evidentemente no, molto dipende dalla qualità dei mezzi di comunicazione, ma più passa il tempo più il loro potere diminuisce. Le notizie si diffondono con i social e tutto dimostra quanto questi siano difficili da controllare e siano la patria delle false notizie. Dipende anche dall’indefinibile «senso civico» di una popolazione, che purtroppo da solo non basta, deve anche esserci sufficiente certezza che le trasgressioni saranno punite, perché certi adulti si comportano come bambini impauriti.
Lei è autore di un importante studio sulla formazione della paranoia, che possiamo chiamare psicosi collettiva, o delirio: è possibile riconoscerla quando ne veniamo in contatto?
La paranoia non è un oggetto materiale, un virus, però come questo si diffonde per contagio. Anche qui la buona informazione e la buona politica sarebbero essenziali. In Italia un paio di anni fa regnava una «paranoia collettiva» del terrorismo, anche se il database europeo diceva che non vi erano stati attacchi (vi fu un unico morto indiretto a Torino, quando nella folla qualcuno pensò allo scoppio di una bomba e ci fu un fuggifuggi con calpestio reciproco).
Non possiamo dunque evitare di farci coinvolgere dal contagio?
Quando si instaura una paranoia collettiva è già troppo tardi, come ho spiegato nel libro, non è facile prevenirla perché nasce da problemi reali. Il terrorismo esiste, però le persone che dicono: «da quando so del terrorismo non esco più di casa» soffrono di un comunissimo disturbo paranoico, abbiamo bisogno di un nemico, del cattivo della storia! Il rischio di venire uccisi dal terrorismo è bassissimo... le persone non dovrebbero uscire di casa perché ci sono gli incidenti stradali, peggio ancora, perché c’è l’inquinamento atmosferico che solo in Italia uccide più di 80’000 persone all’anno (dati EEA, Agenzia Europea per l’ambiente).
Negli anni 1957-60 la cosiddetta Influenza Asiatica, pandemia di origine aviaria, fece migliaia di morti, in seguito arrivò l’Ebola. Vede punti di contatto con il nostro presente?
Certo, gli uomini hanno deformato la natura e ora vengono in contatto con specie animali che prima conservavano un loro spazio separato, ma su ciò le può rispondere un infettivologo.
Ma perché l’allarme per queste influenze non fu totale come oggi?
Potenzialmente il pericolo era grande, ma era il mondo a essere diverso. La SARS si sparse dalla Cina nel 2003, ma allora la globalizzazione era bambina, e i rapporti con la Cina forse un decimo di quelli di oggi.
Siamo al pieno sovvertimento del nostro rassicurante vivere quotidiano, scuole e luoghi pubblici chiusi, contatti umani limitati. Il pubblico ubbidisce ai mezzi di informazione?
Il pubblico ha purtroppo più che mai un comportamento da gregge perché è spaventato. I mezzi di informazione si rendono conto della loro grande responsabilità e cercano di scoraggiare i bisticci tra chi ha opinioni diverse.
I mezzi di informazione potrebbero fare di più?
Potrebbero per esempio frenare il rozzo uso dell’Unione Europea come capro espiatorio. È una nuova, indiretta e inconscia forma di razzismo.
Quanto siamo costretti a vivere produrrà veri cambiamenti?
In teoria sì, stando in casa le famiglie parlano tra di loro come non riuscivano a fare prima, spesso gli studenti studiano di più, si leggono più libri, le coppie che prima non avevano tempo neanche per quello, fanno all’amore.
Quanto ci vorrà per ritornare come prima?
Non lo sappiamo. Bisogna anche vedere che costo avrà, in tutti i sensi, questa epidemia. Come dicevo, purtroppo agli incoraggiamenti vanno associate le punizioni. Non dico che gli umani prenderanno il virus come un «castigo divino», ma molti potrebbero associare il flagello collettivo con un «ce la siamo presa troppo comoda». Qualche abitudine più sana potrebbe restare, se non altro per un po’, perché il costo dell’epidemia sarà altissimo e molte coperte diventeranno troppo corte.
Non crede che questa terribile lezione potrà renderci meno egoisti?
Me lo auguro, ma non abbiamo nessuna garanzia. Anche dopo la Prima guerra mondiale si disse che sarebbe stato impossibile il ripetersi di una follia su quella scala, invece arrivò la Seconda, e fu peggio. Ma con una interessante differenza, per la prima milioni di giovani si offrirono volontari, per la seconda pochissimi. Proprio come lei si augura, evidentemente esiste una «memoria collettiva». Che in quel caso fece da scudo contro le paranoie della guerra.