Un libro che è diventato un must nel mondo della critica d'arte


L’importanza di essere Gillo Dorfles

Il grande critico, giornalista e artista italiano scomparso recentemente a 107 anni, ci aveva dato la chiave di lettura di molti aspetti della nostra epoca
/ 12.03.2018
di Luciana Caglio

Gli siamo tutti, consapevolmente o inconsapevolmente, debitori. Come spetta a quei maestri che lasciano un segno permanente nell’esperienza, mai conclusa, della conoscenza. E, questa volta, in una materia nuova, qual è la comprensione di una contemporaneità, sempre più complessa e mutevole. Di cui, proprio lui, ci ha procurato la chiave d’accesso, decifrando e valutando le tracce lasciate, nel nostro ambiente di vita, da un cambiamento frastornante. In altre parole, Gillo Dorfles ci ha aiutato a capire la nostra epoca, lo «Zeitgeist», usando una definizione a lui familiare.

Nato e cresciuto a Trieste, città di confine, aveva assimilato i fermenti prettamente mitteleuropei che alimentarono il suo plurilinguismo e, soprattutto, la sua straordinaria curiosità. Di questa dote congenita fece uno strumento, a uso pedagogico, professionale e umano. Come, del resto, teneva a ribadire, prendendo le distanze dal docente che monta in cattedra e dall’intellettuale depositario di una cultura esclusiva: «Sono sempre stato, innanzi tutto, curioso, delle persone, delle cose... il prossimo mi interessa più di me. Per mia fortuna».

Contemporaneo a pieno titolo, ha saputo sfruttare nel miglior modo le opportunità del momento, favorite, nel suo caso, da una situazione di privilegiata libertà. E, quindi, dopo la laurea in psichiatria, punto di partenza per l’esplorazione dei comportamenti umani, si dirige verso lo studio dell’estetica, sganciata dalla tradizione passatista e, rivolta invece al presente e all’intuizione del futuro. Si precisa, così, quella che diventerà, più che una specializzazione, una prerogativa, tutta sua. Un geniale unicum.

Attraverso viaggi in Europa, in America, in Giappone, visitando musei, frequentando università, entrando a contatto con le diversità di un mondo ravvicinato ma non ancora globale, perfeziona il suo sguardo di osservatore proprio dei segni di nuove forme d’espressione: oltre alla pittura e alla scultura, ci si trova ad affrontare la grafica, il design industriale, la pubblicità, che sviluppano linguaggi particolari. Insomma, opere di penna e matita, colori, parole e oggetti che appartengono a un genere creativo, tutto da verificare. Gillo Dorfles, per sua natura eclettico, infatti disegna, dipinge, scrive, assume, quasi per forza di cose, un ruolo di guida, favorito dalle circostanze.

Negli anni ’50, abita a Milano, che sta vivendo un’irripetibile stagione d’avanguardia. Con Bruno Munari, Atanasio Soldati e Gianni Monet aveva fondato il MAC, Movimento d’arte concreta. E grazie ai suoi scritti, chiari e arguti, e alla sua stessa personalità originale, conquista un pubblico allargato. La consacrazione di quest’insolita popolarità arriva, nel 1968, con la pubblicazione dell’Antologia del kitsch, testo fondamentale per comprendere gli effetti della massificazione. Un fenomeno che tocca tutti gli aspetti di una modernità spesso malintesa, che abbraccia gli aspetti più disparati della contemporaneità: compresa la moda. Di cui, Dorfles si dichiara un fedele cultore. Sin dall’infanzia, quando portava una casacca alla marinara, di buona fattura, si rese conto «dell’importanza d’indossare un determinato indumento e non un altro. E non ho mai considerato questo fenomeno come qualcosa di futile o di frivolo»: come racconta nel saggio La moda della moda. Altro che l’abito non fa il monaco: l’abbigliamento rivela il senso del gusto e influisce sui comportamenti. Tenuta al riparo dall’esibizionismo, l’eleganza coincide con il rispetto delle regole, necessarie alla convivenza e, non da ultimo, esprime fantasia.

Gillo ne è stato un esempio impareggiabile. La sua ultima fotografia, apparsa poche settimane prima della morte, lo ritrae in un’attualissima tenuta sportiva, pantaloni kaki, camicia grigia e, ai piedi, «All Star» rosse. Sembra l’emblema di uno spirito giovane, ma non giovanilista, capace, sull’arco di 107 anni, di rimanere in sintonia con i tempi, coltivando una certa vena edonista, fra cui la montagna e lo sci. Un’altra storica foto lo mostra sulle nevi del San Bernardino, dov’era assiduo. La Svizzera, del resto, figurava fra i suoi itinerari preferiti. Ne seguiva le vicende artistiche, tanto da scoprire, negli anni 30, una «Konkrete Kunst» svizzero-tedesca, da noi ignorata. A Lugano la galleria Dabbeni aveva, più volte accolto i suoi quadri, testimonianze di una vena inesauribile. E, gli piaceva ricordare un piccolo episodio «tipicamente svizzero»: la giornalaia grigionese che l’aveva rincorso per consegnargli «10 Rappen» di resto, rimasti sul ripiano dello sportello.