Margherita Turewicz Lafranchi, artista polacca nata a Stettino, giunge in Ticino agli inizi degli anni Novanta, quando su consiglio di Anda Rottenberg, storica dell’arte a quei tempi direttrice della Galleria d’Arte Nazionale Zachęta di Varsavia, partecipa a un concorso il cui premio consiste in una residenza artistica al Museo Vela di Ligornetto. Risultata vincitrice, da quel momento lega la sua vicenda professionale e privata al nostro cantone.
Viaggia molto la Turewicz, va in Spagna, in Austria, in Germania, dove ha modo di confrontarsi con diversi artisti e di approfondire correnti passate e contemporanee da cui trarre ispirazione per la sua ricerca: con uno sguardo sempre attento a carpire gli stimoli più vicini al suo sentire, avvia un percorso che disegna una traiettoria singolare fin dagli esordi, dando vita a un linguaggio che rivela chiaramente l’influenza di alcuni movimenti neoavanguardistici, ma che sa giungere, tramite una personale rielaborazione di queste esperienze, a esiti di estrema originalità.
Sono opere, le sue, da cui trapelano difatti richiami all’Arte Povera nell’impiego di elementi nella loro forma primaria e immediata e che hanno l’obiettivo di schiudere un rapporto nuovo con il mondo delle cose allargando al massimo la soglia percettiva ed emozionale. Evidenti sono anche i riferimenti alle indagini dei minimalisti americani: come loro la Turewicz persegue una sorta di «understatement estetico» fondato sul concetto di riduzione, che passa attraverso soluzioni dalla geometria basilare e da materiali, soprattutto industriali, scelti per la loro semplice struttura.
Tutto ciò si coglie chiaramente nella mostra dedicata all’artista ospitata negli spazi della neonata Galleria Daniele Agostini a Lugano. Sono una ventina i lavori esposti, tutti realizzati dal 1997 a oggi e raccolti sotto l’emblematico titolo Effimero, con cui si è voluto mettere in evidenza quel peculiare carattere di antitesi tra forma e sostanza che distingue la produzione della Turewicz.
Le opere dell’artista sono essenziali, attente al proprio ritmo interiore, sono composizioni aperte e ricche di relazioni interne che sanno raggiungere il massimo dell’espressività con il minimo di strumenti esecutivi. La Turewicz usa esclusivamente materiali sintetici, legati in particolar modo all’edilizia, da lei considerati al pari di quelli tradizionali e più nobili. Ecco allora che reti di plastica, fili di rame, cavi elettrici, lana d’acciaio, plexiglas e alluminio, elementi dalla natura resistente e dalla lenta deteriorabilità, vengono elaborati dall’artista in creazioni leggere e diafane – effimere, appunto – che riducono il loro impatto formale e cromatico e gli conferiscono un alto potenziale emotivo.
La materia fredda, rigida e incorruttibile assume così una fisionomia delicata, evanescente quasi, a generare microcosmi in cui il pensiero si crogiola per suscitare un’emozione o evidenziare un’immagine mentale privilegiata. Nei lavori della Turewicz l’ordine e il rigore convivono con la fragilità, la volumetria si combina con la levità, la geometria sposa l’intrigo introspettivo, la trasparenza sfocia nell’ambiguità.
I titoli delle opere ci aiutano a capire quanto questi universi impalpabili racchiudano le considerazioni dell’artista sull’essere umano e sulla società: le piccole Trappole in rete di plastica datate 2016, ad esempio, sono meditazioni sull’isolamento dell’individuo nella società contemporanea; la raccolta famiglia di Meteoriti, dello stesso anno, nella sua stratificazione di materiali plastici e in alluminio diventa una sorta di esortazione a guardare oltre l’apparenza; la Lente in plexiglas e lana di acciaio, del 2005, si fa simbolo della nostra visione del mondo offuscata dai pregiudizi.
Interessanti sono anche i lavori che rispecchiano la vicinanza della Turewicz alla natura, un legame profondo, questo, che prende vita nelle aggraziate Infiorescenze in gommapiuma e filo di rame, del 1998, o nelle serie intitolate Stami, Pistilli e Bozzoli, eseguite in lana e filo di acciaio tra il 2002 e il 2005, in cui l’artista riproduce, ingrandendoli, le parti del fiore e l’involucro protettivo simbolo della metamorfosi per investigare il concetto di trasformazione e di mutevolezza.
Nel percorso di mostra c’è spazio inoltre per un omaggio a Marcel Duchamp, geniale ed eversivo progenitore delle gran parte dei movimenti artistici giunti fino ai giorni nostri, con un piccolo lavoro del 2003 intitolato Mulino e realizzato con dei pulisci-camino: appeso al soffitto, ricorda nelle forme la celebre Macinatrice di cioccolato del maestro francese.
Con le sue opere eteree e incorporee composte di materia imperitura, la Turewicz riesce a farci riflettere sulla relatività delle cose, sul volubile rapporto tra essenza e apparenza e su quel sottilissimo e ingannevole confine che separa la fugacità dall’eternità.