Credo fosse il 2003 quando, per la prima volta, vidi danzare Masaki Iwana. Il Festival Trasformazioni – evento che, negli anni, ha notevolmente accresciuto l’interesse per il butō in Italia – era quindi alla sua terza edizione e, quella sera, a Roma, l’artista giapponese si sarebbe esibito in un assolo intitolato Floating Atop the Hesitant Heart. La sala del Teatro Furio Camillo era affogata nella penombra. Il pubblico occupava fittamente la sala. Quando le luci della platea si spensero, per un tempo indefinito restammo lì, in attesa, senza ben capire cosa accadesse.
Dapprincipio non c’era musica, solo un bagliore debole e diffuso. Sul palco, come un assurdo trono, campeggiava un cesso. Il tempo passava e non succedeva nulla. Poi, avvenne: senza che nessuno lo avesse visto entrare, Masaki Iwana era in scena. Lo si poteva scorgere oltre il centro dell’assito, ma senza ben distinguerne la figura: indossava unicamente una sorta di tunica che lo copriva pesantemente. Il corpo nudo, sotto quel drappo, si muoveva con la lentezza di un fiore. Una strana tensione permeò la sala. I cigolii delle sedie, il fiato degli spettatori, i radi colpi di tosse: tutto sembrava assorbito dal magnetismo di quell’apparizione.
Iwana, con un’azione estenuante, si scoprì parzialmente raggiungendo la tazza. Lì, non ricordo come, si inerpicò sui bordi delle maioliche portando le proprie gambe sopra le spalle: pareva un mostro dolente o un assurdo insetto; i lunghi capelli ricadevano in avanti, nascondendogli il capo. Quindi cominciò energeticamente a sbattere i piedi, come se volesse romperli contro il water; i colpi percuotevano l’oscurità con violenza. Abbandonata quella situazione Iwana prese a danzare in modo dinamico, spingendosi all’estrema sinistra – nuovamente percuoteva col corpo quanto gli era a tiro: la parete, i mantegni, le corde di canapa. Infine, liberatosi definitivamente della veste, nudo, in un gioco di continui disequilibri sulle mezze punte e con le braccia levate, scomparve in un fascio di luce che, smorzandosi, sembrò cancellarlo come acqua al sole.
Sul programma di sala di quella memorabile performance – che tuttora conservo – era scritto: «Ecco una stanza in cui nessuno deve entrare. Ecco una stanza che non esiste. Ciò nonostante ci abitavo. Nel mezzo c’era un vecchio gabinetto malandato. Intorno al gabinetto “memorie”, quasi marcenti nel giallo, lasciate giacere là intorno. Sono io un demone che vive lì in eterno?»
Oggi, dopo aver partecipato a più workshop di questo straordinario artista, posso dire che chi volesse avvicinare lo spirito autentico di quella tendenza della danza che prende nome di butō dovrebbe, assolutamente, conoscere e frequentare il lavoro di Masaki Iwana. Nato a Tokyo nel 1945, Iwana comincia la sua carriera come attore per poi votarsi alla danza a partire dai trent’anni. Ma diversamente da altri suoi colleghi, sceglie di lavorare da solo e di formarsi come autodidatta. Nel 1977 debutta con la sua prima performance (Dancing Boy) per poi elaborare i molti altri assoli che lo porteranno in Francia nel 1983. Qui crea pezzi memorabili come Susabi (Divertirsi, del 1989), dove il pubblico lo vede danzare su una lastra di vetro poggiata su quattro pericolanti bicchieri destinati a frantumarsi, e fonda la Maison du Butō Blanc, una casa-laboratorio in Normandia, a Réveillon, in cui tiene corsi e organizza il festival Verda Utopio.
Ora, settantaquattrenne, Masaki Iwana continua a danzare e a insegnare in tutto il mondo. Inoltre, nel 2008 ha esordito come regista cinematografico col lungometraggio Vermilion Souls, al quale sono seguiti A Summer Family (2010), Princess Betrayal (2012) e Charlotte-Susabi (2017).
In cosa consiste l’insegnamento di Iwana e del suo butō? Difficile spiegarlo brevemente poiché, al pari dello Zen, tale pratica rifugge le esemplificazioni della mentalità occidentale. Uno degli aspetti chiave è forse nella distinzione fra due «scuole» di pensiero: quella della rappresentazione e quella, radicalmente opposta, della trasformazione. «Parlo spesso della differenza fra diventare qualcosa ed esprimere qualcosa», ha affermato il maestro in un’intervista del 1991. «Se vogliamo esprimere qualcosa, dobbiamo sempre avere una qualche distanza con l’oggetto. Per esempio, se io voglio esprimere questa tazza e me stesso, noi dobbiamo avere qualche distanza. Ma se io divento la tazza, non c’è distanza, essa è già realizzata. Naturalmente questa realizzazione è molto difficile, ma noi siamo già una cosa sola».
Durante le lezioni Iwana non mostra mai come danzare, né dà indicazioni in questo senso: il compito di ogni partecipante è quello di trovare la propria danza, il proprio personale processo di trasformazione. Quindi, dopo le ore dedicate al puro allenamento – un training estremamente intenso, realizzato attraverso lo stretching dei mudras e una serie di esercizi che mirano a un completo controllo dei piedi, delle gambe e del baricentro – Iwana propone precisi temi di danza che portano l’allievo, da un lato, al confronto costante coi propri limiti, dall’altro, alla ricerca di un paesaggio interiore che faccia da nutrimento alla danza.
Nel mese di maggio la compagnia ticinese Progetto Brockenhaus organizzerà un laboratorio di quattro giorni (dal 9 al 12) con questo grande artista presso lo Studio Dasein di Tesserete. Il corso è aperto a «professionisti delle arti sceniche, performer, danzatori, musicisti, cineasti, artisti visivi e a tutti coloro che sono profondamente interessati ad una ricerca sul corpo». Posso assicurare che è raro, nel proprio percorso, incontrare personaggi di tale levatura: si consiglia, quindi, caldamente, la partecipazione al workshop emblematicamente intitolato L’intensità del nulla.