Il teatro, quello vero, non dà risposte ma crea problemi e, alla fine di ogni spettacolo, la più bella sensazione è constatare che quanto è stato visto abbia prodotto qualcosa negli spettatori. Una collezione di reazioni, fra sensazioni, stimoli, dubbi e riflessioni, insomma, la messa in moto di emozioni anche profonde. Come quelle registrate soprattutto fra i giovani (molti in platea) che hanno seguito l’applaudito debutto di Macbeth, le cose nascoste, la rilettura del capolavoro di Shakespeare di Angela Demattè e Carmelo Rifici con la dramaturg Simona Gonella, andato in scena sul palco del LAC, ultima produzione di LuganoInScena realizzata in coproduzione con Teatro Metastasio Prato, TPE – Teatro Piemonte Europa, ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione in collaborazione con il Centro Teatrale Santacristina.
Frutto di due anni di lavoro e, soprattutto, opera di scavo nell’animo umano alla scoperta dei suoi più remoti archetipi, il progetto ha trasformato l’approccio all’opera del Bardo in un manifesto antropologico. Ne sanno qualcosa Giuseppe Lombardi, nel suo ruolo chiave, psicoanalista junghiano protagonista degli incontri preliminari con gli attori, e Luciana Vigato, esperta di comunicazione non verbale e stili relazionali.
Lo vediamo nelle fasi iniziali dell’approfondimento operato su alcuni dei soggetti protagonisti sulla scena, filtro con gli attori e sugli attori, percepiti attraverso delle fasi filmate che introducono le azioni del dramma offrendo una chiara dimostrazione di come tutto vada a comporre il percorso attorno a storie che riguardano tutti, un grumo centrale denso, terminale, dove la complessità del passato è memoria, dunque conoscenza. Una tela di intimi intrecci che vanno così a combaciare con le vicende del futuro re di Scozia.
È l’importanza, l’essenza di lavorare su un testo classico che nel progetto per la sua messa in scena rappresenta per Rifici lo strumento indispensabile al fine di meglio capire noi stessi e i rapporti fra noi e il mondo in cui desideriamo vivere. In questa prospettiva Macbeth è forse l’opera più crudele del Bardo: un meccanismo svelato attraverso le sue sfaccettature e la forza con cui penetrano nell’inconscio svelando i presupposti del male, dell’invidia e della violenza avvolti nella febbre per il potere. Un mito ancestrale che abbraccia tutto e tutti, fin dalle origini dell’uomo.
La psicoanalisi per la lettura di un testo teatrale, tecnica non nuova ma certamente in questo caso imprescindibile, ci porge la chiave di volta per aprire voragini sull’essere e sul divenire, su contenuti profondi interni spesso scabrosi, crudeli. Rifici e la sua squadra attraverso il Macbeth affrontano lo studio degli archetipi, confrontandosi con simboli, segni misterici di un regno primitivo, legato alla terra e ai suoi riti, anche religiosi. Un mondo che abbiamo dimenticato ma che non ci ha del tutto abbandonato, rivelando i rigurgiti di una sapienza antica, preclassica.
Come per la profezia delle streghe dove Il bello è brutto e il brutto è bello così un principio di inizio e fine si sviluppa nell’interpretazione di Rifici che riduce a pochi personaggi la tragedia: tutti ruotano attorno alla cifra tre, magica e divinatoria. Ecco allora tre streghe, tre Macbeth, tre Ladies, tre Banquo. E il mito di Ecate che al termine integra le tre streghe per un’ultima divinazione universale. Il tutto appare fluido e naturale nella successione degli avvenimenti dopo l’iniziale processo introspettivo, fino al cuore della vicenda scespiriana.
Con Macbeth che torna dalla guerra con Banquo, divorato dalle profezie delle streghe in accordo con la moglie uccide Duncan e le sue guardie, e in seguito lo stesso Banquo: un diabolico fiume di sangue immaginato grazie a un complesso dispositivo raccontato con qualche sacrificio testuale, fra scene memorabili per la loro forza recitativa e dimensioni contemporanee miste a anime barocche tra i canti, i suoni e le suggestive musiche di Zeno Gabaglio, le scene di Paolo Di Benedetto e la pedana inclinata su cui scorre lieve l’acqua purificatrice di peccati, i costumi senza età di Margherita Baldoni. Il tutto avvolto dal suggestivo piano di luci di Gianni Staropoli, dai video di Piritta Martikainen, dalle riprese delle sedute d’analisi a visioni pittoriche (Mantegna, Bacon…).
Un gran bel lavoro dal profilo drammaturgico (Demattè e Gonella) e registico con uno degli spettacoli più riusciti di Rifici. Un denso universo teatrale dal quale si ritagliano un posto di assoluto primo piano gli attori, eccellenti per bravura e intensità: Alessandro Bandini, Angelo Di Genio, Tindaro Granata, Christian La Rosa, Leda Kreider, Maria Pilar Pérez Aspa, Elena Rivoltini.
I 30 anni della Compagnia della Fortezza
L’articolo apparso la scorsa settimana dedicato al libro-intervista con Armando Punzo conteneva un’imprecisione nella sottotitolazione: il regista non è ancora stato a Bellinzona ma sarà ospite del Teatro Sociale dal 13 al 16 febbraio prossimi. Ci scusiamo con gli interessati.