Se si guarda in generale alla situazione della letteratura italiana degli ultimi anni spicca in modo evidente la compattezza del gruppo di scrittori emiliani di cui lei fa parte. Come è nato questo gruppo e, soprattutto, come spiega la sua compattezza, la sua sintonia?
Credo che all’inizio di tutto ci siano il lavoro e l’atteggiamento di Gianni Celati, uno scrittore che sia negli anni Settanta che negli anni Ottanta ha rappresentato un punto di riferimento per tanti autori allora esordienti o principianti. Dico atteggiamento perché Celati non ha mai avuto la spocchia del personaggio importante, né come professore né tanto meno come scrittore; e questo ha fatto sì che poi si radunassero intorno a lui persone sempre diverse. Il gruppo a cui lei si riferisce è quello che si è formato più o meno all’epoca (seconda metà degli anni Ottanta) in cui Celati raccoglieva testi narrativi per una rubrica da lui curata sul «manifesto» e intitolata Narratori delle riserve; rubrica poi raccolta nell’antologia omonima, sempre a cura di Celati e pubblicata da Feltrinelli nel 1992.
A questo ha fatto seguito un convegno tenuto a Cortona, sempre in quell’anno, e successivamente l’ideazione e la realizzazione della rivista «Il Semplice», pubblicata sempre da Feltrinelli negli anni 1995-97. Ed è più o meno da questa esperienza che, sotto la guida di Celati e Cavazzoni, sono usciti un po’ tutti gli scrittori che a volte vengono definiti con l’etichetta di Emiliani. In realtà di scrittori emiliani ce ne sono tantissimi altri, ma ciò che accomuna questi che direttamente o indirettamente hanno avuto a che fare con «Il Semplice» è la tendenza ad utilizzare una lingua aderente il più possibile a quella parlata, della quale però si cerca di rendere gli effetti (procedendo quindi a una sua stilizzazione) e non di darne una riproduzione mimetica (ad esempio tramite la sua trascrizione). All’origine credo ci sia un rifiuto dell’italiano standard e scolastico, avvertito come una mortificazione dell’espressione; ed è da questo rifiuto che nasce il tentativo di creare un dialetto letterario in cui la lingua parlata acquisisca il crisma della letterarietà e la lingua letteraria il tono del parlato, ottenendo come risultato una lingua che non finge di non esser scritta e non teme di sembrare parlata.
Si può dire che in qualche modo il vostro lavoro continua la direzione indicata da Zavattini, quella dell’ascolto e dell’osservazione accurata del mondo circostante?
Certo, Zavattini è sicuramente un antesignano, un antenato, le sue intuizioni in materia letteraria e cinematografica sono state geniali e dureranno ancora per tanto tempo. In fondo, anche lui teorizza e mette in pratica un’intuizione che lo accomuna a tanti altri grandi artisti del Novecento: quella cioè secondo cui lo straordinario sta nell’ordinario. Nel senso che non c’è bisogno d’inventare nulla, le cose da raccontare sono sotto ai nostri occhi. Basta avere l’accortezza di individuarle e la capacità tecnica di trasformarle in forma narrativa. Certo occorre anche la sensibilità giusta per coglierle, ma è indubbio che come procedimento è quello che può garantire il migliore effetto di autenticità delle cose narrate.
Il tratto che mi sembra unire un po’ la vostra poetica è una voglia di «abbassare i toni» per togliere enfasi al lavoro letterario e narrativo.
Questa domanda si riallaccia a quanto ho detto in precedenza riguardo alla lingua. Oltre a eliminare l’enfasi, direi che questo abbassamento di tono che lei rileva serve anche a togliere di mezzo qualunque tipo di affettazione o artificiosità che possano essere presenti nella scrittura. È soprattutto a questo, peraltro, che serviva l’esercizio di lettura ad alta voce che veniva praticato durante le riunioni del «Semplice». Non si trattava di una novità, ovviamente, dal momento che si è sempre letto ad alta voce, ma nel nostro caso questo tipo di lettura veniva praticato proprio per mettere alla prova la tenuta linguistica di un testo. Ad una lettura ad alta infatti voce balzano immediatamente, per così dire, all’orecchio tutti quei modi petulanti di espressione che inevitabilmente sfuggono al controllo ogni volta che si scrive con la convinzione di «stare facendo letteratura».
La sua partecipazione a Babel era legata in particolare alla visione «oltremondana» che caratterizza Silenzio in Emilia, il suo libro forse più conosciuto e che colpisce fortemente il lettore.
L’idea inizialmente è nata cercando di trasformare un mio stato d’animo in una narrazione, cioè anziché parlare di me direttamente, farlo attraverso una storia. Certamente avrò risentito dell’influenza di Joyce (dato che in quel periodo – estate 1994 – stavo traducendo i Dubliners) e in particolare di quel bellissimo racconto che è I morti. Ma ero rimasto colpito anche dal romanzo di un altro scrittore irlandese, e cioè da Il terzo poliziotto di Flann O’Brien. Mi aveva colpito l’idea narrativa che sta alla base di questo romanzo, ossia che il narratore protagonista si accorge solo alla fine di essere stato morto per tutta la durata della storia. Nel mio caso la morte non ha niente di funereo, ma si riduce solo ad essere un espediente narrativo che serve a dare maggior rilevanza ai fatti anche più banali e insignificanti della vita. Osservare le cose attraverso questo velo che ci separa dalla vita è un modo semplice per sottolineare il valore di quelle stesse cose – valore che troppo spesso ci sfugge o diamo per scontato.
Per non esagerare in serietà, occorre dire che il suo lavoro (come quello dei suoi colleghi) ha anche una carica umoristica molto originale: può svelarci qualche retroscena legato a Learco Pignagnoli, il fantomatico scrittore inventato da lei?
Learco Pignagnoli era inizialmente il personaggio di un mio racconto intitolato Sanremo, che Celati aveva pubblicato nell’antologia Narratori delle riserve. Poi io avevo cercato di ampliarlo facendogli assumere le dimensioni del romanzo, sempre con lo stesso personaggio Learco Pignagnoli protagonista. Ma la cosa non aveva funzionato e il romanzo è stato accantonato. Qualche anno dopo ho pensato di riutilizzare almeno il nome del protagonista come eteronimo e poi facendo diventare lui stesso l’autore di alcuni testi brevi che stavo scrivendo in quel periodo e da cui poi sono stati tratti spettacoli e letture pubbliche, tra cui quello di maggior successo chiamato «Pignagnoli ballabile» perché accompagnato da un gruppo di musicisti di liscio (L’Usignolo).