Come in una sorta di periodica conferma del fatto che i nomi «over 60» della scena musicale internazionale restino i più affidabili (almeno per quanto riguarda la costante produzione discografica e l’intrinseca qualità della loro offerta), il primo disco a vedere la luce nel neonato 2017 è nientemeno che il nuovo lavoro firmato dal grande Brian Eno: colui che, dopo una militanza nel glam rock con i Roxy Music, ha a tutti gli effetti inventato la cosiddetta musica «ambient», trascendendo la semplice elettronica per sperimentare una complessa gamma di suggestioni, volte a catturare aspetti particolarmente sfuggenti della natura umana e del suo difficile rapporto con la folle società moderna. Argomenti e predilezioni che, nel corso di decenni costellati di molteplici collaborazioni e avventure discografiche, Eno non ha mai abbandonato: tanto che, ad appena nove mesi di distanza dal precedente The Ship, l’artista inglese torna alla carica con questo nuovo Reflection, pubblicato il primo di gennaio e già acclamato dalle principali riviste di settore in lingua inglese, e non solo. Un album quieto e introspettivo, che sembra incitare l’ascoltatore a una silenziosa autoanalisi (suggerita, in fondo, dal titolo stesso del CD), quasi in un tentativo di catturare la nostra immaginazione per portarci a rallentare il ritmo, distaccandoci da quanto ci circonda.
Forse proprio per questo, il disco segue la falsariga del celebre Thursday Afternoon (1985), e si compone perciò di un’unica, lunga traccia di cinquantaquattro minuti, dal titolo, appunto, di Reflection; un espediente tramite il quale Eno dimostra ancora una volta come il suo particolare modo di fare musica ambient sia diverso da quello di qualsiasi suo seguace. Infatti, utilizzare questo CD come semplice melodia di sottofondo sarebbe, in verità, un vero spreco, in quanto lo spessore degli arrangiamenti e delle soluzioni armoniche del buon Brian rimane tale da innalzare ogni suo sforzo ben al di sopra dell’usuale standard di quella che lo stesso artista aveva, un tempo, definito come «musica da aeroporti» (dal titolo del suo seminale album del 1978).
Così, in Reflection ritroviamo molte delle predilezioni stilistiche di Eno, a partire da un uso raffinatissimo non soltanto delle sonorità elettroniche dei sintetizzatori, ma anche delle campane tubulari e del vibraphone, il tutto condito da una certa predilezione per la tecnica dell’eco: un cocktail che ha spinto uno dei recensori a descrivere quest’opera come «infinita musica techno-utopica da ascensori». E per quanto la definizione calzi a pennello, bisogna però ammettere che l’album pecca di una delle colpe forse più invalidanti per una qualsiasi opera d’arte, ovvero l’eccessiva autoindulgenza: infatti, dopo la prima metà del disco, ciò che appare lampante all’ascoltatore non è soltanto la fascinazione di cui il sound di Eno è, come sempre, permeato, ma anche il fatto che la struttura musicale dell’unica, lunghissima traccia del CD appare talmente rarefatta da risultare a tratti quasi soporifera, e l’esasperante lentezza delle soluzioni melodiche dà quasi l’impressione che il disco venga suonato a velocità rallentata, distorcendo e prolungando ogni nota; con il risultato che l’effetto chill out («rilassante») per il quale questo genere musicale è rinomato, viene portato alle estreme conseguenze, rischiando di frenare la pur ipnotica esperienza sonora.
Forse conscio di questo rischio, Eno ha voluto accompagnare la pubblicazione di quest’album con l’uscita di una (costosa) app, progettata al fine di ampliare e modificare, tramite la creazione algoritmica di infinite variazioni sul tema, la melodia e la struttura stessa di Reflection, il tutto a discrezione dell’ascoltatore: un’idea che evidenzia una volta di più la peculiare visione dell’artista relativamente al ruolo dell’arte sonora e all’architettura stessa della propria musica, da lui considerata come costantemente passibile di modifica e cambiamento, al punto da rendere l’opera qualcosa di così fluido e impermanente da potersi evolvere all’infinito, in accordo con i desideri dei singoli fruitori. Intenzioni senz’altro interessanti, le quali però non nascondono il fatto che, per quanto Reflection sia comunque un lavoro di alta qualità, come sempre degno del suo autore, la sua vaga pretenziosità finisca per dare origine a una certa noia.
Certo, chi segue Eno da tempo potrà confermare come la sua arte abbia sempre avuto una connotazione un poco «snob», per così dire; eppure sarebbe sbagliato supporre che questa elitaria raffinatezza abbia mai reso l’artista ridondante o ripetitivo, almeno in passato. Anche per questo, possiamo solo restare in attesa di vedere su quali dettami stilistici Brian Eno deciderà di concentrarsi per il suo prossimo esperimento discografico, così da scoprire se l’eccesso di enfatica meditazione che ha caratterizzato Reflection sia per lui soltanto un vezzo passeggero o, piuttosto, una nuova e dichiarata direzione stilistica.