Urs Fischer, Big Clay #4 (2013-2014) Kindly loaned by the Foundation for Contemporary Art “Victoria – The Art of Being Contemporary” (Courtesy of the Artist, Photo by Mattia Marasco / MUS.E)


Le invasioni del presente

A colloquio con Sergio Risaliti, che è la mente del progetto realizzato dal controverso artista elvetico Urs Fischer a Firenze
/ 04.12.2017
di Ada Cattaneo

Le opere dello svizzero Urs Fischer sono esposte – fino al 21 gennaio 2018 – in uno dei luoghi più emblematici del Rinascimento: Piazza della Signoria a Firenze. Classe 1973, Fischer si è formato in Svizzera e ad Amsterdam, per poi stabilirsi a New York; le sue opere, sempre ironiche, ma allo stesso tempo realizzate con grande cura per l’aspetto tecnico, sono state oggetto di numerose mostre personali, fra cui quella al Centre Pompidou di Parigi e al Kunsthaus di Zurigo, oltre che presentate di frequente a biennali.

Come si poteva immaginare, molte sono state le critiche e le polemiche suscitate dall’accostamento tra le sculture di questo irriverente artista e alcune delle opere più note della storia dell’arte (come la Giuditta di Donatello, il David di Michelangelo, e che siano copie o originali poco importa). Ma, se si ha il tempo di soffermarsi e di approfondire, le connessioni fra le opere presentate e gli oggetti antichi che le circondano sono molte più di quanto si possa immaginare. Il direttore artistico del progetto, Sergio Risaliti, ci spiega in un’intervista questi nessi e ci aiuta, se ce ne fosse ancora bisogno, a non temere il contemporaneo.

Ci può raccontare come è composta la mostra?
Si compone di tre opere: Big Clay #4, collocata al centro di Piazza della Signoria, in metallo e alta circa dodici metri, mentre altre due sculture in cera sono state posizionate presso l’arengario di Palazzo Vecchio, tra la Giuditta di Donatello e il David di Michelangelo. Queste ultime si intitolano Two Tuscan Men. Mentre Big Clay #4 rappresenta la materia ancora informe, ma che sta per prendere forma, i due ritratti in cera sono invece opere molto realistiche, tanto da sembrare quasi dei calchi, così come avveniva nella tradizione della ceroplastica, cioè la tecnica di modellare la cera. Ovviamente il calco vero e proprio non è stato effettuato, poiché i soggetti raffigurati sono tuttora viventi; si tratta invece di una renderizzazione in 3D realizzata in digitale.

Cosa rappresentano queste ultime due figure?
Si tratta di Francesco Bonami e Fabrizio Moretti, rispettivamente curatore e promotore della mostra. I due sono associati ad altri elementi: nel caso di Moretti si tratta di una statua rinascimentale di cui egli è gelosamente proprietario, essendo collezionista e mercante d’arte. Bonami, invece, si erge su un basamento ben diverso da quelli classici: un frigorifero all’interno del quale sono conservati frutta, vegetali e altro. Mentre la figura di Moretti è rivolta verso la piazza, quella di Bonami, introversa, guarda verso le mura del palazzo. È girato di spalle, tutto concentrato sul telefonino che lo collega di attimo in attimo con il mondo. Le due statue sono in realtà delle candele, che vengono continuamente accese, così che la cera, via via con il tempo, si scioglie, creando quasi delle cascate di materiale. Il processo continua fino al punto di trasformare in una massa informe i due ritratti a grandezza naturale.

Quindi, se in Big Clay #4 assistiamo a una fase di creazione della forma, nei due ritratti è raffigurato il processo inverso: la distruzione.
Ciò che è raffigurato si consuma, distruggendosi. Questo avviene proprio nel luogo della massima celebrazione, cioè l’arengario. Nel caso di Big Clay #4, che tanto scandalo ha suscitato, la massa è come appena modellata dall’artista infante, che in questo caso sceglie quindi di comportarsi proprio come un bambino quando gli si dia un po’ di creta con cui giocare: la manipola, senza preoccupazione figurativa. Si tratta del gesto istintivo di plasmare la materia morbida, per sentirne il piacere stesso sotto le dita, fermandosi al punto in cui essa non ha preso una forma esemplare. L’artista crea così un piccolo modello, poi elaborato dal computer e ingigantito. Sul metallo si riscontrano quindi le impronte del polpastrello, il segno della mano che ha lavorato.

Il passaggio al computer è solo funzionale oppure è nodale nel percorso creativo?
È un passaggio epocale, nel senso che è perfettamente attinente alla nostra epoca. Mentre il genio antico, rinascimentale o barocco, si poteva servire dei suoi scalpellini, oggi l’artista contemporaneo si può servire delle nuove tecnologie. Un domani forse saranno i robot a occuparsene.

Ci ha appena raccontato che Two Tuscan Men sono opere realizzate in cera. Esiste un collegamento con l’uso di questo materiale nella tradizione scultorea?
Sicuramente. A pochi passi si trova il Perseo di Cellini, che è stato una delle grandi avventure rinascimentali della scultura in bronzo, realizzata con la tecnica della cera persa, con dimensioni monumentali. Poi c’è anche un’altra tradizione europea che ha avuto il suo centro proprio qui: Firenze fu la capitale della ceroplastica dal Trecento in poi, fino a tutto il Seicento. Figure in cera, anche a grandezza naturale, erano appese nelle chiese di Orsanmichele e della Santissima Annunziata. Nelle strade del quartiere tra Piazza Duomo e i Servi erano numerose le botteghe degli artigiani della ceroplastica. I grandi scultori si sono sempre serviti di questo materiale per realizzare i modelli preparatori, ma hanno anche realizzato vere e proprie sculture – conosciamo le vicende perfino di celebri ritratti medicei in cera – che per logici motivi di conservazione non ci sono quasi mai state tramandate.

Da quanto ci sta raccontando sembra che le opere di Fischer esposte in Piazza della Signoria siano molto più legate alla tradizione artistica fiorentina di quanto appaia da un’osservazione superficiale.
Sì, più di quanto appaia. E non da ultimo ricordiamo che proprio lì in Piazza Signoria si sciolse in un rogo terribile il corpo di Savonarola. Quindi la piazza viene usata in senso simbolico, ma anche in quanto luogo antropologico, dell’esibizione e dell’imposizione del potere, oltre che dell’espiazione tramite il sacrificio.

Si è molto discusso di queste opere, spesso con toni estremamente critici. Come vede la difficoltà di molto pubblico di fronte all’arte del presente, soprattutto nel momento in cui questa venga presentata al di fuori dei luoghi ad essa deputati?
Non vedo difficoltà: vedo prevalentemente disinteresse e superficialità. Ma, in ogni modo, qui essa smette di essere autoreferenziale. Qui non è più discussa o giudicata da un pubblico specifico e specializzato, educato alle sequenze iconografiche, formali, tecniche. Quando si entra in uno spazio pubblico, della rilevanza storica e universale come Piazza Signoria, tutto cambia. È come se noi vedessimo improvvisamente inserita una parte contemporanea in un affresco del Quattrocento. Lo riterremmo uno sfregio, una violenza. Quando un’opera contemporanea entra in un contesto storicizzato ci sentiamo turbati perché essa ci pone di fronte alla realtà odierna. Si infrange allora quel sogno idealistico di eterno presente che è la bellezza rinascimentale.

Firenze si sta impegnando molto per portare il contemporaneo in città. Forse non ci si può accontentare di essere stati un grande centro artistico nel passato?
Con il sindaco Dario Nardella, da alcuni anni, stiamo portando avanti questo percorso. Si tratta di un piano articolato, fatto di tanti episodi. Abbiamo operato in più luoghi, considerando la città come vero e proprio laboratorio culturale e non come una vetrina a disposizione del mercato dell’arte. In quest’ottica, ogni luogo è potenzialmente un centro di arte contemporanea. Al Forte Belvedere abbiamo organizzato le mostre di Penone, Gormley, Fabre. Abbiamo portato opere contemporanee al Museo Bardini. Quest’anno ci siamo espansi, entrando agli Uffizi con le opere di Kounellis e Paolini, e ai Giardini di Boboli con Mimmo Paladino. Una disseminazione del contemporaneo nei luoghi conclamati del patrimonio storico. Ma la funzione più dirompente per questo rinnovamento è di certo da attribuire a Piazza della Signoria, centro nevralgico dell’antropologia culturale cittadina.