Nel video proiettato a metà del percorso espositivo, lo si vede seduto su una sedia a rotelle. Ma ciò non impedisce a Sam Gilliam, un signore di 84 anni, di seguire con attenzione l’allestimento della mostra al Kunstmuseum di Basilea; nelle grandi sale della nuova ala, l’artista è intento a supervisionare ogni dettaglio dall’inizio alla fine, dando indicazioni precise.
Già, perché appoggiare una grande tela su un cavalletto in mezzo a una sala, o appenderla come un drappeggio o un sipario alla parete, in dialogo con altre opere, non è cosa da poco; si tratta di un gesto che crea un movimento complesso che inciderà direttamente sullo sguardo dell’osservatore, alle prese con un inaspettato gioco di ombre e luci, di colori che si ricompongono in una nuova geografia visiva.
Sam Gilliam sta vivendo un momento d’oro: negli ultimi tempi musei e gallerie importanti gli dedicano mostre, le sue quotazioni sul mercato dell’arte hanno raggiunto prezzi mai visti. All’artista afro-americano – il primo a rappresentare nel 1972 gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia – viene riconosciuto un ruolo di innovatore nella storia dell’arte americana degli ultimi decenni, e il recente successo commerciale lo conferma. Un successo tardivo, giunto quasi dopo mezzo secolo di carriera; perché è stato un artista così a lungo sottovalutato e misconosciuto (soprattutto in Europa)?
Perché forse, come suggeriscono alcuni, Gilliam ha sempre evitato di seguire un cammino convenzionale, non legandosi a una galleria, facendo arte astratta quando non era di moda e soprattutto quando gli artisti afroamericani erano chiamati a fare un’arte che fosse compatibile con la causa politica; e così i galleristi non lo espongono e le sue origini, pur non connotando la sua arte, finiscono per pregiudicarne la visibilità e condizionarne il riconoscimento pubblico.
Fra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta – periodo sul quale si focalizza la mostra basilese con una selezione di 45 opere – Gilliam è alla ricerca di una propria identità artistica; scopre ben presto che si può liberare la tela dalla struttura del telaio, dapprima versandoci il colore direttamente, piegandola e strofinandola, per poi fissarla su un telaio inclinato e lasciare colare casualmente le strisce di colore; i suoi beveled-edge paintings assumono così l’aspetto di un oggetto; nel 1968 con i suoi Drapes, la tela è direttamente appesa a un soffitto o a una parete, seguendo un ritmo preciso e ogni volta adattandosi al contesto dello spazio espositivo. Si tratta di un gesto radicale che infrange vecchie regole e antiche barriere, ma la cui reale portata non appare forse evidente a un pubblico europeo, che ha ancora l’imprinting visivo dei maestri riconosciuti dell’Espressionismo astratto.
Eppure Gilliam, nato nel 1933 a Tupelo nel Mississippi, è un pioniere, fra i primi forse a scoprire il valore plastico della pittura e fare uso del principio dell’improvvisazione, inventandosi un genere a metà fra pittura, scultura e performance, così come nella musica il mondo stava scoprendo il jazz libero e sovversivo di John Coltrane e Miles Davis, tanto ammirati dall’artista che una volta ha dichiarato: «Prima della pittura, c’era il jazz». L’idea – rivelò in seguito Gilliam – gli venne in parte osservando le donne che stendevano il bucato fuori dalla finestra del suo atelier a Washington, la città in cui si era trasferito nel 1962 e dove si era fatto conoscere all’inizio come rappresentante della così detta Washington Color School.
Se Sam Gilliam ha vissuto sempre al di là dei «ghetti» politici e artistici, non ha però ignorato i grandi cambiamenti che attraversavano la società americana in quegli anni, con le battaglie per i diritti civili; Green April è un riferimento al giorno della morte di Martin Luther King; Lady Day e Lady Day II, due tele per la prima volta esposte insieme, richiamano la figura di Billie Holiday la cui celebre Strange Fruit era diventata l’inno di protesta contro il linciaggio degli afroamericani negli Stati Uniti.
Ma se i soggetti politici sono quasi inesistenti, con l’opera dal sapore autobiografico Dark As I am, del 1973, l’artista sembra intervenire con una chiara consapevolezza nel dibattito in corso all’epoca sull’identità culturale afroamericana. La pittura resta però lo spazio della creazione individuale, senza piegarsi a connotazioni ideologiche o etniche, come dimostra per esempio la sala consacrata alla natura stessa della pittura; con la serie Atmosphere Gilliam si fa interprete di un astrattismo meditativo in cui lo spettatore vive un’immersione visiva, analoga a quella che si prova di fronte alle Ninfee di Monet. Un’immersione assecondata da un allestimento minimalista, che lascia tutto lo spazio possibile alla presenza delle opere.