Una delle mete obbligatorie a Matera sono le case-grotta scavate con abilità nel tufo fin dal paleolitico. Testimonianza di un passato remoto, simbolo culturale della città, sono presenti in gran numero sia nel rione Sasso Barisano sia nel Sasso Caveoso.
In queste costruzioni sotterranee, arieggiate e illuminate unicamente dalla porta d’ingresso e da una finestrella in cima alla stessa, viveva una buona parte degli abitanti della città lucana – si parla di almeno 15mila persone – fino allo sfollamento coatto degli anni 50. La maggioranza era composta da contadini con le loro famiglie allargate, comprendenti cioè più generazioni. Le dimore ipogee erano inoltre condivise con le poche bestie (pecore, muli, asini, capre, galline, conigli, a volte il maiale) usate nei lavori agricoli o per scopo alimentare. Bisogna specificare che la vita rurale si svolgeva soprattutto fuori di casa: gli uomini con i loro animali da soma e da pascolo alle prime luci del giorno raggiungevano i prati e i campi dove passavano la maggior parte della giornata intenti alla pastorizia e alle coltivazioni; le donne, i bambini e i vecchi rimanevano nel borgo ed erano attivi nel cortile che accomunava alcune famiglie, il cosiddetto «vicinato» che permetteva loro di intrecciare una fitta rete di relazioni, di mutui aiuti, di inevitabili litigi. Di conseguenza, la casa-grotta fungeva soprattutto da riparo notturno per uomini e animali e per i pasti dei famigliari.
Queste costruzioni potevano essere ampliate, a seconda dei bisogni, scavando verso l’interno; con il tufo estratto si abbelliva l’entrata e, talvolta, si ingrandiva l’edificio verso l’esterno.La casa tipica materana è composta da più di un ambiente sebbene in un’unica cavità che manteneva una temperatura costante di 14/15°C ed era sempre umida perché la calcarenite è una pietra porosa che lascia filtrare l’acqua, i muri erano quindi ricoperti da muffe scure. In media ogni famiglia aveva sei figli, ma gli occupanti di una dimora ipogea potevano anche superare la decina.
La cucina. Di solito era pavimentata in cotto e ubicata vicino all’unica entrata della casa-grotta per l’evacuazione del fumo. C’era un focolare con cappa, mobili e utensili necessari alla preparazione e al consumo dei pasti. Al centro un unico tavolo a cui si sedevano i famigliari per i pasti; questo era piccolo e amovibile perché sul medesimo suolo dovevano passare le bestie verso la stalla. Con i vasi di terracotta si raccoglieva l’acqua o si conservavano gli alimenti. Un mobile importante presente in ogni abitazione era la madia dove si conserva la farina e il lievito madre per preparare il pane; l’impasto veniva poi contrassegnato dalle famiglie con uno stampino di legno e cotto a turni nel forno comunitario del vicinato una o più volte alla settimana.
La stanza. È composta da un letto rialzato (contro l’umidità) con il materasso imbottito di foglie di granoturco o paglia dove dormivano i genitori e i figli più piccoli; c’era poi una cassettiera per la biancheria minima i cui cassetti potevano anche fungere da culla per i neonati e sul suo pianale o sulle pareti trovavano posto i santi protettori e i ricordi dei parenti defunti. Lo spazio sotto il letto serviva come deposito di merci e utensili o anche da rifugio notturno per galline e conigli. Non c’erano servizi igienici, ci si accontentava di un grosso vaso (il càntaro) il cui contenuto finiva nel letamaio, nella fogna a cielo aperto sulla via o in un condotto che scaricava direttamente nel torrente Gravina.
La cisterna. Solitamente la raccolta delle acque piovane avveniva in una cisterna al centro di un cortile condiviso con i vicini; in alcuni casi la casa-grotta aveva un pozzo personale da cui si attingeva l’acqua per gli usi domestici e per abbeverare il bestiame. Siccome il tufo è un minerale assorbente, le cisterne, generalmente a forma di campana (di goccia), erano impermeabilizzate dal coccio-pesto, un impasto di calce e terrecotte frantumate finemente.
La stalla. Assieme agli attrezzi agricoli, occupava gli spazi più interni della dimora sotterranea e gli animali di grossa taglia, così come il letamaio fungevano da fonte di calore nei periodi freddi. Una nicchia della casa era destinata all’accumulo dello sterco animale (e umano) che poi veniva portato nei campi come concime… biologico, diremmo oggi.
La neviera. Era il frigorifero di un tempo, presente in modo saltuario nei rioni di Matera. In inverno, attraverso un’apertura soprastante, la neve veniva gettata sul fondo di questo deposito dove si stendeva uno strato di fascine, una sorta di filtro che lasciava passare l’acqua della neve sciolta verso una cisterna di raccolta. La neve accumulata veniva spianata e compressa per ottenere strati di ghiaccio di 20/30 cm alternati a strati di paglia; tale procedura favoriva il taglio a blocchi del ghiaccio che era venduto al dettaglio agli abitanti nei periodi di maggiore siccità e di caldo per conservare i cibi deperibili. Chi possedeva una neviera poteva quindi aprire un fiorente commercio.
In certe strutture ipogee più capienti troviamo anche lo spazio per la macinazione del frumento, la pigiatura dell’uva, la cantina, il magazzino per i cereali o altre mercanzie.