Il Cinquecento è un secolo cruciale per la cultura moderna. Nel 1492 Cristoforo Colombo sbarca in America e nello stesso anno i Mori vengono cacciati dalla Spagna. Nel 1517 inizia l’era della Riforma protestante. Basterebbero questi avvenimenti per inquadrare un periodo complesso e contraddittorio. Ma sono anche gli anni di Erasmo da Rotterdam che, nel 1509, pubblica L’elogio della follia, di Nicolò Copernico con Rivoluzione degli astri celesti, di Andrea Vesalio con la sua Costruzione del corpo umano, entrambi del 1543, di Giordano Bruno che pubblica De l’infinito, universi e mondi nel 1584; ma anche di Ludovico Ariosto che scrive L’Orlando furioso nel 1516, di François Rabelais con gli Orribili e spaventevoli fatti e prodezze del molto rinomato Pantagruel… Michelangelo Buonarroti dipinge la Cappella Sistina e il Giudizio universale, Leonardo da Vinci il Ritratto di Monna Lisa. Sono gli anni nei quali termina il Rinascimento e inizia a Roma nel terzo decennio, sotto il papato di Clemente VIII della famiglia Medici, la Maniera moderna.
Un periodo felice nel quale la maggior parte degli artisti più importanti sono chiamati nella città eterna a lavorare. Fino al 1527 quando Roma è invasa dai Lanzichenecchi nel cosiddetto Sacco. Inizia così la diaspora e gli artisti tornano a Firenze, in Emilia, a Venezia fino alla Reggia di Fontainebleau, contribuendo alla diffusione della Maniera in tutta Europa.
In quegli anni tra Roma e Firenze l’arte italiana avrebbe raggiunto la perfezione, superiore a quella degli antichi. Tutti ne erano consapevoli, come testimonia Giorgio Vasari nelle sue Vite. La pittura e la scultura fino al tardo Medioevo erano ritenute arti meccaniche, che richiedevano solamente un’abilità manuale, e quindi pagate a ore, al contrario di quelle liberali considerate superiori. Queste erano suddivise nell’arte del Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e del Quadrivio (aritmetica, musica, astronomia, geometria).
Nel Cinquecento, grazie ad artisti del calibro di Raffaello, Michelangelo e Leonardo, la pittura ottiene pari dignità delle arti liberali: proprio a Firenze nel 1563 nasce l’Accademia delle arti e del disegno. Uno dei dibattiti che ha portato a questo risultato è stato quello sul fine delle arti. All’interno di questo ha avvio la disputa riguardante la superiorità della pittura o della scultura. Per questo Benedetto Varchi organizza un’inchiesta fra gli artisti e chiede un parere scritto a Vasari, Pontormo, Bronzino, Cellini, Tribolo, Francesco da Sangallo, Tasso e, infine, a Michelangelo. Nel 1546 (secondo lo stile fiorentino, in realtà nel 1547) viene pubblicata la famosa Lezzione di Benedetto Varchi, nella quale si disputa della maggioranza delle arti e qual sia più nobile, la scultura o la pittura, fatta da lui pubblicamente nella Accademia Fiorentina la terza domenica di Quaresima, l’anno 1546.
Il Varchi se la cava benissimo e alla fine trova la soluzione: «Dico, adunque, procedendo filosoficamente, che io stimo, anzi tengo per certo, che sostanzialmente la scultura e la pittura siano un’arte sola». Nel 1550 esce la prima edizione delle Vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori del Vasari il quale risolve il confronto con l’equità del Varchi. Nella seconda edizione del 1568, invece, cambia idea e dà la preferenza alla pittura.
Palazzo Strozzi a Firenze dedica una mostra agli artisti in città nel Cinquecento. È l’ultima esposizione della trilogia curata da Carlo Falciani e Antonio Natali iniziata con il Bronzino («Azione» 8 nov. 2010) e proseguita con Pontormo e Rosso Fiorentino («Azione» 28 apr. 2014). Settanta dipinti dei quali 17 restaurati per l’occasione. Fra questi Il trasporto di Cristo, noto come la Deposizione, di Jacopo Carucci detto il Pontormo del 1526-1528, da sempre nella Cappella Capponi di Santa Felicita e ora in esposizione assieme alla Deposizione dalla croce di Volterra del 1521 del Rosso Fiorentino e al Cristo deposto di Besançon del 1543-45 circa del Bronzino.
Il restauro della Deposizione del Pontormo ha rivelato tra l’altro che l’artista non ha lavorato con l’olio bensì con la tempera all’uovo, mescolando quindi i pigmenti non con l’olio di lino ma con il bianco dell’uovo fresco. Un accostamento, questo dei tre dipinti, particolarmente stimolante perché mette a confronto opere emblematiche, quasi come un manuale di storia dell’arte. Gli irregolari Pontormo e Rosso accanto al tradizionale Bronzino. Nei primi due troviamo delle composizioni asimmetriche e una forte espressività. Il dipinto del Pontormo è come una danza allucinata dove il pathos emerge dalle inconsistenze delle figure. Quello del Rosso è di una tragicità irreale, un po’ astratto con quelle scale geometriche sulle quali si arrampicano i personaggi. Il dipinto del Bronzino gioca tutto sulla pulizia formale e sulla simmetria che si incrociano in una chiarezza razionale.
L’esposizione si concentra sulla seconda metà del secolo. Per Bronzino, scrivono i curatori Falciani e Natali, nella mostra del 2010, si era cercato di vanificare l’interpretazione di un Agnolo algido manierista per presentarlo come artista «capace di frequentare i registri più vari». Per il Pontormo e il Rosso tre anni fa si era badato a inquadrare il dialogo fra loro due e nel contempo a rilevare la «differente tempra». La mostra odierna, invece, vuole sfatare il mito ricorrente incentrato sul fatto che per Firenze il primo Cinquecento abbia rappresentato l’apogeo. Si sono così scelti due indirizzi: il sacro e il profano. Il sacro messo in relazione alle conseguenze del Concilio di Trento dopo il 1563.
Il Cardinale Gabriele Paleotti nel suo Discorso intorno alle immagini sacre e profane del 1582 si fa interprete della lezione tridentina sostenendo la «più alta idealità del pittore devoto» e ritenendo che non serva una disputa sul primato delle arti bensì un’educazione del popolo e, per fare questo, le immagini devono essere comprensibili, facili, leggibili. Già da prima Andrea del Sarto nel suo Compianto su Cristo morto del 1523-24 si fa interprete ortodosso del concetto di transustanziazione, ovvero della presenza del Cristo nell’ostia consacrata, come si può notare dall’ostia in primo piano davanti al corpo di Cristo. Pontormo nella sua Deposizione è meno diretto. Il sacrificio eucaristico è svelato dagli angeli che depongono il corpo di Cristo sull’altare come «offerta di pane degli angeli».
Ma sono le pale d’altare che danno il senso dell’ideologia controriformista sostenuta da Cosimo de’ Medici. Vengono così abbattuti i tramezzi delle chiese che dividevano i laici dai religiosi. I dipinti raffiguranti episodi sacri risultano a tutti comprensibili con i personaggi vestiti in abiti moderni. Nella sala dedicata alle pale d’altare spicca la Resurrezione di Santi di Tito del 1574 con il suo incandescente e contorto movimento dei personaggi che sono una summa di naturalismo e disegno fiorentino. Oppure la Visione di San Tommaso d’Aquino, sempre di Santi di Tito, con le due donne, sostengono i curatori, belle come attrici.
L’aspetto lascivo è contenuto nei nudi delle immagini profane che illustrano varie allegorie e miti. Il doppio registro, fra sacro e profano, è rappresentato nello Studiolo di Francesco I che si trova a Palazzo Vecchio, ma soprattutto nel parco della Villa «Il Riposo» nei pressi di Firenze, dove il devoto Bernardo Vecchietti aveva riunito un tabernacolo con un affresco illustrante l’episodio di Gesù che incontra la samaritana al pozzo assieme alla scultura della Fata Morgana del Giambologna mentre esce nuda dall’acqua.
Due donne, una vestita e una nuda, e due acque, una fresca e fugace e l’altra che disseta per sempre. Raffaello Borghini nel 1584 descrive così la scultura del Giambologna: «Una bellissima donzella ignuda di marmo in atto d’uscir d’un antro, et una mano si pone al delicato petto, e l’altra sostiene una conca marina da cui innalzandosi ricade nel vaso l’acqua, che ariento vivo sembra».
L’esposizione termina con il Martirio di San Giacomo e Josia, una grande tela del 1605 dipinta da Lodovico Cardi detto il Cigoli, fulcro del passaggio dal Manierismo al Barocco, con uno stile eclettico che unisce la scuola fiorentina a quella emiliana e veneziana.
Chi fosse in astinenza di arte contemporanea vada in Piazza Signoria a vedere, dello svizzero Urs Fischer, Big Clay#4 and 2 Tuscan Men.