Oskar Kokoschka ha vissuto a lungo – è nato nel 1886 a Pöchlarn in Austria, ma è di origini ceche, ed è morto nel 1980 a Montreux – e per tutta la vita si è portato dietro la fama, o l’infamia, di artista degenerato. Ha viaggiato parecchio. O meglio, si è dovuto spostare molto, diciamo in cinque paesi diversi fra Vienna, Berlino, Dresda, il Maghreb, Praga, Londra, la Scozia, Salisburgo e infine Villeneuve, dove dal 1953 prende casa assieme alla moglie Olga. Perciò è un artista cosmopolita e per questo viene voglia di conoscerlo, o conoscerlo meglio. Anche solo per contraddire il sentimento generale di neonazionalismo e di chiusura che sta invadendo il mondo e l’Europa con questi sciagurati sovranisti che si impossessano dei gangli del potere. I suoi dipinti sono, comunque, un pugno nell’occhio e a raccontarli ci si può fare molti nemici. Ancor oggi.
La Kunsthaus di Zurigo gli dedica un’intensa esposizione divisa per otto nuclei tematici che narrano le opere all’interno di questo continuo girovagare. Novanta dipinti e altrettante opere su carta con fotografie e documenti. Ci sono quasi tutte le opere basilari, a parte probabilmente la più emblematica: La sposa del vento (Tempesta) del 1914 ubicata al Kunstmuseum di Basilea. Dal Nudo di bambina del 1906 un po’ cezanniano (guardiamolo bene, perché oltre agli orridi sovranisti oggi vanno forte anche i neopuritani) per terminare con un luminoso Ecce Homines del 1972.
Soffermiamoci solo su alcuni aspetti del suo percorso: l’amore, la visione libertaria e antimilitarista e gli ultimi splendidi trittici, ricomposti per la prima volta fuori dalla Gran Bretagna: La saga di Prometeo del 1950 e Le termopili del 1954.
L’amore, dicevamo. Quello giovanile, a ventisei anni quando nel 1912 incontra Alma Mahler, la vedova del grande musicista morto l’anno prima e sette anni più vecchia di lui. Alma è una donna volitiva, colta, affascinante, indipendente e dopo la relazione con Kokoschka si sposa altre due volte, prima con l’architetto Walter Gropius e poi con lo scrittore Franz Werfel. Kokoschka si innamora pazzamente di lei ma la loro focosa relazione dura solo tre anni. La stessa Alma scrive che «l’amore fra di noi fu un’unica, tumultuosa battaglia». L’ossessione per Alma dura anche nel decennio successivo e l’artista realizza per lei una ventina di dipinti, sei ventagli e una sorta di bambola a grandezza naturale, a sua immagine, ricoperta da una riccia peluria di lana. In mostra una serie di opere fra le quali il loro ritratto e il dipinto a muro del 1914 situato in una parete della loro casa a Breitenstein am Semmering e ritrovato, recentemente, sotto vernici e carta da parati.
La visione libertaria e antimilitarista. Dal 1931 l’artista vive tra Vienna e Parigi. Nel 1934 si trasferisce a Praga dove conosce la sua futura moglie Olga Palkovská. Nel 1938 di fronte alla minaccia nazista decidono di andare in esilio a Londra. In questo periodo i dipinti diventano esplicitamente politici. In mostra ne possiamo ammirare diversi. Osserviamone due in particolare. L’uovo rosso del 1940-41. I quattro grandi della Terra sono a tavola e stanno mangiando una gallina. Questa vola via lasciando sul tavolo un uovo rosso. Mussolini in primo piano sembra terrorizzato, Hitler con un elmo di carta urla di paura, il gatto francese è sotto la tavola e in fondo troviamo il leone britannico con il segno della sterlina. In alto Praga che brucia. Un dipinto sovraeccitato, allegorico, dai colori violenti tipici dell’espressionismo.
L’altra tela è Per che cosa combattiamo del 1943. Qui troviamo un condensato delle atrocità della guerra e i suoi protagonisti. Il vescovo che con una mano dà l’obolo alla Croce Rossa e con l’altra benedice le truppe militari, una madre che muore di stenti al centro, il governatore della Banca d’Inghilterra, Montague Norman, il presidente della Reichsbank, Hjalmar Schacht. In basso a destra il busto di Voltaire con su scritto «Candide», il migliore dei mondi possibili. Nel 1942 l’artista scrive: «Non è stato questo a farmi venire al mondo al di là e al di qua di un certo confine politico: i confini sono artificiali».
Alla fine della guerra Kokoschka ricomincia a viaggiare in Europa e in Nord America. Un periodo fecondo. La maturità coincide con l’interesse verso l’arte greca e il ritorno ai valori classici di spazio, movimento e storia come momento unificante dei valori universali. Sono di questi anni i trittici La saga di Prometeo e Le Termopili. Prometeo, come si sa, è il Titano che sfida gli dei e ruba il fuoco a Zeus per donarlo agli uomini. Zeus lo punisce incatenandolo e facendogli divorare il fegato da un’aquila. Il trittico di Kokoschka racconta questo mito con forza, enfasi, drammaticità. Le figure appaiono possenti e nodose; i colori si sfaldano, fluidi, lievi, aerei, accesi; le pennellate si fanno vibranti, guizzanti, sospese. La luce, nel dipinto centrale, diventa accecante e la forza delle immagini sublimi, nel vero senso della parola, cioè un’infuocata miscela di bellezza e terrore.
Kokoschka scrive: «Grazie al carattere particolare dell’arte greca – che ha avuto un significato non meramente estetico, ma anche etico, coincidente con lo stato e con la comunità umana nel senso più vasto – noi troviamo… noi stessi».Oramai l’artista è diventato un mito e piace vederlo in una fotografia del 1969 ritratto assieme alla sua amata Olga nel giardino della loro casa di Villeneuve seduti con una tazza di the in mano a godersi una tranquilla e meritata vecchiaia.