La «commedia che scalda il cuore», così è stata definita Die Meistersinger von Nürnberg – che Richard Wagner concepì , scrisse e rappresentò tra il 1845 e il 1868 –, perché umana, gioiosa, viva, con gli elementi tipici della commedia, equivoci, scambi di persona e lieto fine. Siamo verso la metà del Cinquecento a Norimberga in pieno rinascimento germanico, scaturito anche dalla Riforma Protestante di cui Hans Sachs, poeta calzolaio realmente vissuto e personaggio-chiave della vicenda narrata da Wagner, è stato il cantore.
Al centro una gara poetica e canora tra poeti riconosciuti, maestri cantori appunto, per ottenere la mano di Eva, figlia del facoltoso orefice Pogner. Il cavaliere Walther von Stolzing non è né poeta né cantore, ma quando tra lui ed Eva scoppia il colpo di fulmine, decide di diventarlo. Si sottopone a un primo giudizio e viene subito bocciato per la sua non adesione alle regole di metrica, molto complesse e rigide. Ma Hans Sachs, il più fulgido fra i maestri cantori e il più amato dal popolo, riconosce la sua arte e lo aiuta a prepararsi per la gara, sebbene anche lui nutra un sentimento per la giovane Eva. Il rivale in amore e in poesia di Walther è lo scrivano della città, Beckmesser, comica figura di pedante e imbroglione, ma nonostante i suoi raggiri, – ruba il testo di Walther e cerca di farlo suo –, nella gara poetica che si svolge all’aperto in un tripudio di folla, viene rifiutato, mentre Walther trionfa.
Tema centrale dei Maestri Cantori è dunque «che cosa è arte? ciò che segue le regole o ciò che le rompe? chi deve decidere che cosa è arte? un’élite o appunto il popolo?». Per Hans Sachs l’arte ha bisogno di essere nutrita, le regole da sole non bastano. C’è forse un riferimento autobiografico: Richard Wagner è Walther (ma è anche Sachs!), il sovvertitore delle regole, il rivoluzionario. Non è un caso che Walther rifiuti la corona del vincitore e che Eva stessa deponga la corona sulla testa di Sachs, che rimprovera il giovane, sollecitandolo a non disprezzare i maestri e ad onorare la sacra arte tedesca. E il popolo lo acclama, quel popolo che Sachs indica come punto di riferimento per l’arte.
Questi Maestri Cantori che approdano alla Scala dopo ventisette anni di assenza sono un allestimento del-l’Opernhaus di Zurigo del 2102, la regia è affidata a un grande vecchio della scena tedesca, Harry Kupfer, che firmò alla fine degli anni ’80 un celebre Ring a Bayreuth. Kupfer non resiste all’idea di trasportare i suoi Meistersinger nel secondo dopoguerra, tra le rovine della chiesa di S. Caterina, distrutta da un incendio nel ’45, chiesa che era stata sede della scuola di canto dei maestri cantori nel Cinquecento, in cui si svolge il primo atto dell’opera e che oggi, in quanto rovina molto ben conservata, è sede di spettacoli all’aperto.
Siamo verso la fine degli anni ’40, Norimberga, città-simbolo del nazionalsocialismo, semidistrutta dai bombardamenti, ha visto lo storico processo contro i criminali nazisti nel ’45, e sta cercando – con fatica ma anche con determinazione – di uscire da un passato buio, proprio come la Norimberga di Lutero e Hans Sachs usciva dalle tenebre del Medioevo. L’ambientazione postbellica getta un’ombra sulla luce della rinascita, e nel contempo dà forma a quelle inquietudini che avvertiamo nell’opera di Wagner e che parte della critica novecentesca ha chiamato deriva verso il populismo, idea di superiorità della razza e altro.
Le rovine della chiesa di S. Caterina sono il palcoscenico fisso dell’azione e, disposte su una pedana ruotante, si mostrano da diversi scorci. Sullo sfondo cambia il volto della città: nel primo atto è un cumulo di macerie, nel secondo comincia la ricostruzione e si vedono le gru, nel terzo atto la città si è sviluppata e svettano i nuovi edifici. Ma l’intenzione registica si svela soprattutto nella scena finale della gara poetico-canora, in cui il fastoso cerimoniale che la precede è trasformato in una specie di festa di provincia, con processione quasi carnevalesca e il sindaco che inciampa nel gonfalone in un’atmosfera dimessa e senza pretese, come presumibilmente l’arte che vi si propone. Tutto questo va contro il trionfale e solenne finale wagneriano. Kupfer s’inventa un finale a sorpresa, con Sachs che rinuncia alla corona di maestro cantore e l’appende al chiodo, rifiutando quella Germania nazionalista e xenofoba cui sembrano fare riferimento le sue stesse parole.
Michael Volle è un Hans Sachs sanguigno e potente, Markus Werba un Beckmesser poco comico ma convincente, mentre Daniele Gatti negli ultimi dieci anni – dal Parsifal di Bayreuth in poi – si è ritagliato il meritato titolo di «direttore wagneriano». Da vedere al Teatro alla Scala fino al 5 aprile.