Come già era avvenuto per il Futurismo, così è avvenuto per il Dada. Poter contare su una data inequivocabile di fondazione ha moltiplicato le celebrazioni per i cento anni dalla nascita di quel movimento che seppe raggruppare, nella più contestatrice delle Avanguardie, artisti profondamente diversi tra loro per provenienza culturale e geografica, come Tzara, Ball e Picabia.
La manifestazione di più recente apertura è quella inaugurata da poche settimane al Museo di Santa Giulia di Brescia, che proseguirà fino alla fine di febbraio. Qui l’accento è stato posto sulla diffusione e gli sviluppi che il movimento ebbe a Sud delle Alpi, in particolare in Ticino e Lombardia. Da qui il coinvolgimento di tre musei della Svizzera Italiana – Pinacoteca di Casa Rusca a Locarno, MASI di Lugano e Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona – che hanno messo a disposizione importanti opere dalle proprie collezioni, accanto ad altri importanti prestatori, quali la Fondazione Marconi di Milano e la ricchissima Sammlung Marzona di Berlino.
Guardando per un attimo alle vicende collezionistiche, si capisce come un contributo determinante per la fortuna del Dada a Sud delle Alpi (e non solo) venne dall’attività di Arturo Schwarz, gallerista di origini egiziane che ne promosse ampiamente la conoscenza con le mostre nella sua galleria milanese a partire dagli anni Cinquanta, diffondendo opere nelle più importanti raccolte d’arte, potendo contare su opere di comprovata autenticità grazie all’intenso rapporto con molti degli artisti che erano stati al centro di quella stagione. La stessa favorevole dinamica si sarebbe verificata anche con molti dei surrealisti, a partire dall’amicizia di Schwarz con André Breton.
L’esposizione Dada 1916. La nascita dell’antiarte è suddivisa in quattro sezioni, prendendo avvio dal clima culturale che permise la nascita di questo fenomeno artistico, che rimane di difficile inquadramento dal punto di vista artistico per la molteplicità delle sue espressioni, ma che certamente venne determinato in modo profondo dalla situazione che l’Europa stava attraversando in quei primi decenni del secolo. È in questa prima parte della mostra che viene illustrata – grazie alle fotografie provenienti dall’Archivio di Stato di Bellinzona e dai musei del locarnese – la grande importanza che il Monte Verità ebbe nell’alimentare il fertile clima che avrebbe dato vita ad esperienze come quella del Cabaret Voltaire. Qui l’attitudine di alcuni artisti, come Jean Arp, verso lo spirituale trovava profondo riscontro.
Allo stesso tempo, il connubio con altre discipline artistiche, che sempre caratterizzerà il movimento nato a Zurigo, veniva qui incoraggiato: sopra tutti, il caso dei seminari estivi – fra le cui allieve ci furono regolarmente Sophie Taeuber-Arp ed Emmy Hennings, moglie di Hugo Ball – tenuti dal coreografo ungherese Rudolf von Laban, personaggio determinante per lo sviluppo della danza contemporanea. Il valore di quest’esperienza artistica ticinese, che non smette di affascinare, viene così ribadito ancora una volta nel corso della mostra per il suo ruolo di crocevia delle tendenze più avanzate di quell’epoca.
Altre sezioni indagano, tramite alcune opere emblematiche, le influenze del Futurismo, le vicende zurighesi con l’intensa attività di performance dal vivo che le caratterizzò (anche con un tentativo di riproduzione nelle sale del museo del Cabaret Voltaire), fino alla diffusione di Dada dalla Svizzera verso Berlino e New York. Qui è da segnalare la presenza di alcuni ready-made prodotti da Marcel Duchamp e Man Ray, opere ormai talmente iconiche da essere note anche a chi non ha mai avuto modo di sfogliare un manuale di storia dell’arte, insieme agli esperimenti di percezione ottica che i due artisti iniziarono a rea-lizzare a partire dai primi anni Venti, come i «Rotorelief».
Un’ultima sezione ripercorre quello che fu l’influsso della stagione dadaista sui movimenti artistici che seguirono, oltre agli intensi contatti intrattenuti con esponenti di altre correnti. Si scopre così dal nutrito corpus di documenti che Tristan Tzara svolse una vera e propria campagna di diffusione del credo dadaista: curò, per esempio, personalmente i rapporti con molti dei Futuristi italiani, pubblicando scritti sulle riviste più seguite, fedele alla convinzione che nella parola si trovasse il mezzo principale per diffondere la nuova estetica, dai manifesti ai volantini, dai romanzi alle riviste.
Non sono davvero molti gli autori che si possano definire esclusivamente «dadaisti», eppure quel linguaggio coniato a partire dal 1916 si ritrova nel lavoro di moltissimi altri che verranno in seguito. Anarchici ed individualisti per loro stessa natura, i dadaisti delle origini non furono mai alla base di un vero e proprio movimento accomunato da intenti e forme. Le opere presentate sconfinano spesso nel Futurismo e nel Costruttivismo, nell’Astrattismo, proprio perché i limiti erano labili e alcuni degli artisti passavano da una forma espressiva all’altra, senza temere condizionamenti stilistici. Da quest’ultima parte emerge quindi come l’importanza di Dada si possa apprezzare al meglio dai suoi esiti e dalla sua forza nell’influenzare ciò che venne dopo, sul finire del primo conflitto mondiale, fra Europa e Stati Uniti. Il Surrealismo ne è solo il più diretto erede, ma gli echi arriveranno ben più lontano, fino a raggiungere negli anni Sessanta il Neo-Dada di Robert Rauschenberg e Jasper Johns.
Sempre presso il museo di Brescia, un’altra mostra accompagna la retrospettiva dedicata al Dada: si tratta della personale di Romolo Romani (1884-1916), autore poco noto – tra i firmatari del primo manifesto della pittura futurista, precursore dell’arte astratta, indagatore dell’inconscio e del paranormale – nonostante la sua capacità di influenzare artisti a lui vicini, come Umberto Boccioni.