«Le finzioni e i documentari programmati alle 52esime Giornate di Soletta rivolgono spesso il loro sguardo al di là delle frontiere del nostro paese; ma il fascino per “gli altri” o per “l’estero” si ritrova anche nelle storie sulla Svizzera stessa», rivela Seraina Rorher con quell’entusiasmo che inietta dal 2012 nel festival più importante della cinematografia elvetica. Sì, perché al di là della qualità dei film presentati, le ormai mitiche Giornate di Soletta si nutrono di attualità, di nuovi impulsi, di nuova linfa per continuare a crescere evitando di trasformarsi in caricatura.
Grazie alla sua direttrice Seraina Rohrer le Giornate riescono ogni anno a mantenere quell’equilibrio delicato ma indispensabile fra identità nazionale e fame di scoperta. Due impulsi vitali e costruttivi che non solo nutrono la cinematografia del nostro Paese ma che si trasformano anche (e forse soprattutto) in esempio da seguire, in antidoto contro un ripiegamento su sé stessi che incede pericolosamente. Come sottolinea molto bene la sua direttrice, la 52esima edizione, che si è svolta dal 19 al 26 gennaio, è forse stata quella che più ha saputo cavalcare questa corrente. In modo sicuramente inconsapevole, frutto di un clima generale marcato dall’instabilità e dal crescente bisogno di comprendere la confusione che ci attornia, molti cineasti svizzeri hanno deciso di rivolgere l’occhio delle loro cineprese verso quell’estero tanto spaventoso quanto vicino (forse non territorialmente ma sicuramente mediaticamente).
Fra i dieci film in lizza per il prestigioso Prix de Soleure ben sei si concedono il lusso scomodo di interrogare realtà lontane alla ricerca di chiavi di lettura o «semplicemente» per dare voce a chi sembra averla persa per sempre. Uno dei film più potenti in questo senso è sicuramente Cahier africain di Heidi Specogna (presentato alla Settimana della critica di Locarno, dove si è aggiudicato il Premio Zonta Club) che si conferma come una delle documentariste svizzere più interessanti ed esigenti. Di una bellezza terrificante Cahier africain traccia il destino di un piccolo e fragile quaderno che racchiude storie di indicibile dolore, quelle di trecento donne vittime di stupro da parte dei mercenari congolesi nella Repubblica centroafricana durante il conflitto armato del 2002. Heidi Specogna riesce nel difficile compito di dipingere l’orrore con coraggio e poesia, per ridare a queste donne la dignità necessaria a ricostruirsi. Ridare voce e corpo a quanti non l’hanno più per permettere loro di riscrivere la propria storia.
A condividere questo bisogno di giustizia, questa necessità di ritrascrivere i fatti dando la parola a quanti sono costretti a rimanere in silenzio, vi è anche Mehdi Sahebi che con il suo MIRR ripercorre la storia (o meglio la mette in scena) di un gruppo di contadini cambogiani privati delle loro terre. Mehdi riflette allo stesso tempo sull’utopica neutralità documentaria e sulle possibilità di «intervenire» sulla realtà nel rispetto della realtà stessa. Heidi Specogna e Mehdi Sahebi incarnano un nuovo modo di fare cinema documentario, coscienti dell’impatto che i media hanno sul punto di vista ma soprattutto sulla sensibilità del pubblico, spesso anestetizzato da un eccesso di (cattiva) informazione. Indifferente a una violenza onnipresente che diventa quasi banale, lo spettatore ha bisogno di ritrovare un’umanità di cui ha quasi dimenticato il sapore. Un sapore amaro ma vivificante che lo risveglia dal suo torpore globalizzato per fargli gustare la gioia (e il dolore) di quella che potremmo chiamare empatia.
Come mostra bene la sezione speciale «Reisen ins Landesäussere» (Viaggiare fuori Paese, NdT), che ripercorre la storia dei registi-esploratori svizzeri che sin dagli anni 1930 si sono interessati a paesi lontani (una fra tutti la storica Ella Maillart), il fascino per l’«altro» non è certo cosa nuova. Ad essere cambiata è la prospettiva rispetto a ciò che sta al di là dei nostri confini e che ha trasformato i cineasti svizzeri in artisti senza frontiere, in una parola: globali.
Attraverso i film in concorso per il Prix de Soleure, ma anche quelli selezionati per il Prix du public, ci rendiamo conto di quanto le frontiere del nostro Paese siano permeabili (almeno da un punto di vista cinematografico). Se da un lato progetti come Cahier africain, MIRR (ma anche Double peine, il nuovo lungometraggio di Léa Pool o Docteur Jack di Benoît Lange) ci portano nel cuore (e riportano nel nostro cuore) di realtà lontane e comodamente mantenute nell’ombra, è a volte l’estero che si invita nella nostra ovattata realtà trasformandola, deformandola, spaventando quanti si aggrappano ad una perennità sempre più polverosa.
Significativi in questo senso Impasse, primo lungometraggio della romanda Elise Shubs che mette sotto i riflettori le vite clandestine di tante donne (migranti, madri di famiglia) che vendono il loro corpo sui tranquilli marciapiedi di Losanna, ma anche Rue de Blamage dell’esordiente Aldo Gugolz, scorcio di una Svizzera (simbolizzata da una strada di Lucerna) ricca d’inaspettati innesti che si fondono armoniosamente nel paesaggio per regalargli un profumo nuovo, al contempo esotico e famigliare. Quella che è apparsa attraverso i ventun film in concorso per il Prix de Soleure e per il Prix du public (ma anche molti di quelli presentati in quel laboratorio di talenti che è la sezione Panorama suisse), è una Svizzera sfaccettata e in costante mutazione, abitata da inquietudini che potremmo definire universali: il bisogno di libertà che malgrado le rivendicazioni passate (raccontate in Die göttliche Ordnung, film d’apertura di Petra Volpe) continua a frustrare molte donne, ma anche la ricerca di un equilibrio sognato fra il proprio ritmo personale e la frenesia di una società dominata dalla performance (e che abita il sottile Weg vom Fenster – Leben nach dem Burnout, di Sören Senn).
E se in barba ai benpensanti l’«identità svizzera» non fosse altro che una costruzione modulabile secondo i desideri di ognuno? Una terra d’accoglienza, di passaggio, un laboratorio in cui possono convivere leggende alpine (come quella raccontata nel poetico Das Mädchen vom Änziloch, di Alice Schmid, in lizza per il Prix du public), tradizioni ancestrali (dipinte nel documentario musicale Unerhört jenisch, di Martina Rieder, anche lui candidato per il Prix du public) e origini lontane (quelle dei registi Elene Naveriani e Christophe M. Saber che si recano rispettivamente in Georgia ed in Egitto per regalarci I am Truly a Drop of Sun on Earth e La vallée du sel)?
Ciliegina sulla torta di una 52esima edizione che volge lo sguardo al di là delle frontiere, il «Prix d’honneur» che è stato attribuito alla produttrice ticinese Tiziana Soudani. Anche lei partita da lontano, dall’Africa, dove ha lavorato come produttrice di vari film, Tiziana Soudani ritorna in Svizzera, e più in particolare in Ticino, dove fonda, nel 1987, Amka Films, importante casa di produzione che ha sostenuto film ormai storici come Pane e tulipani di Silvio Soldini ma anche successi più recenti come lo splendido Le meraviglie di Alice Rohrwacher. Con il suo lavoro Tiziana Soudani ha dimostrato come da un piccolo innesto (dal sapore latino) possa nascere un fiore meraviglioso che non conosce frontiere, o meglio che gioca con queste stesse frontiere per trasformarle in forza, per forgiarsi un’identità che non assomiglia a nessun’altra.