La satira come rifugio dai guai

Il Premio Satira Politica di Forte dei Marmi, creato nel 1973, quest’anno è stato assegnato al bravo vignettista Vincino
/ 23.07.2018
di Luciana Caglio

Prendersi in giro, esercitando l’ironia e il sarcasmo su se stessi, e immediate vicinanze, cioè famiglia e patria, non è una prerogativa spiccatamente italiana, ma lo sta diventando. Quando nel 1973, fu assegnato per la prima volta il Premio Satira Politica di Forte dei Marmi, il fatto incuriosì l’inviato del «Times», Peter Nichols, dichiaratamente scettico sul futuro di un’iniziativa cui mancava il retroterra adeguato. Anche sul «Corriere della sera», Giampaolo Pansa dubitava che l’Italia sapesse ridere di se stessa. Previsioni e pregiudizi smentiti proprio dal crescente prestigio di una manifestazione che, l’8 luglio scorso, ha attribuito, per la 46esima volta, il suo ormai ambitissimo premio a Vincino, vignettista tutto particolare. Non a caso, dopo un percorso politico e professionale a zig zag , fra ideologie e testate contrastanti, è approdato al «Foglio» di Giuliano Ferrara, che ne apprezza appunto la complessità di «aristocratico, svagato, estremista, cedevole…» Insomma, le caratteristiche di uno che fa «quel che gli pare». A suo rischio e pericolo.

In effetti, anche dal profilo creativo, il linguaggio grafico di Vincino, che associa figure e parole in un intreccio ingarbugliato, può sconcertare. Come, del resto, sconcerta un’esperienza di vita scombussolata, che emerge dall’autobiografia, pubblicata in occasione del premio. Dal titolo depistante: Mi chiamavano Togliatti… (edizioni UTET). Ma l’autore chiarisce subito l’equivoco. In realtà, da piccolo, odiava Togliatti: «Siccome avevo il naso buffo e gli occhialini tondi, a scuola i compagni mi chiamavano Togliatti.» Quel nome, del resto, stava diventando scomodo. Si era nel 1956, i carri armati sovietici avevano soffocato la rivolta di Budapest e il Pci ne subì i contraccolpi. Nasceva una nuova stagione politica, all’insegna della contestazione e della ribellione.

E Vincino, classe 1946, aveva inevitabilmente respirato quell’aria dissacrante, che caratterizzò un’intera generazione. Figlio di una famiglia dell’alta borghesia palermitana, non tradì le sue origini. Seguì, agli inizi, un itinerario tradizionale, frequentando la facoltà di architettura, dove si laureò «con il minimo dei voti», ma allenò il suo precoce talento per il disegno. Che poi diventò l’obiettivo di una carriera sul piano nazionale, a contatto con gli esponenti di una cultura in pieno rinnovamento. Cadevano le barriere dei generi, e, sotto l’etichetta dell’impegno politico, scrittori, registi, attori e artisti riscoprivano anche la satira come strumento di lotta contro l’establishment. Ma non soltanto.

Si tratta, infatti, di dare spazio e prestigio a una forma espressiva d’impareggiabile efficacia, sinonimo di sintesi. Con una vignetta, si definisce una situazione complessa. Con una battuta, si riassume un lungo discorso. Ma bisogna saperci fare, sviluppando capacità specifiche: una manualità che traduce l’osservazione in pensiero. Fa opinione.

Vincino impara il mestiere, rifacendosi a esempi storici, che non mancano, anche in Italia. A cominciare da «L’Asino», fondato, a Roma, nel 1892, nell’era Giolitti, agli albori della democrazia, e soppresso nel 1923, nell’era Mussolini, agli albori della dittatura. Come dire, la satira chiede libertà e indipendenza dal potere. Tira proprio quest’aria, negli anni 70, quando nasce il settimanale satirico più rappresentativo del momento: «Il Male», creato dai disegnatori Pino Zac e Vauro, dallo scrittore Sergio Saviano e poi diretto da Vincino. Ottiene un successo imprevedibile, lanciando «fake news» assurde: «Arrestato Ugo Tognazzi, capo delle BR» o «Lo Stato si è estinto», firmato da un falso Eugenio Scalfari o, ancora, sotto una finta testata della «Gazzetta dello sport» la notizia: «Mondiali annullati!» I calciatori olandesi erano dopati. Insomma, con la satira si denunciano scandali veri e ci si diverte a inventarne. Sono le due facciate di quest’arte.

Ora, l’esperienza di Vincino e, più in generale, la popolarità e l’autorevolezza conquistate da vignettisti e comici dovevano rivelare un nuovo aspetto della creatività italiana, o meglio del modo d’intendere l’italianità. Il successo di Forattini, Giannelli, Giannini, sulle pagine dei quotidiani, e di Begnini, Crozza, Gene Gnocchi, e tanti altri, confermano una disponibilità all’ironia, anzi all’autoironia, che è un buon indizio, dal profilo umano: l’ammirevole virtù di non prendere tutto sul serio, di considerarsi i primi e i migliori. D’altro canto, però, la risata potrebbe essere la risposta ai guai, un rifugio consolatorio, quando tutto va a rotoli.

Bibliografia
Vincino, Mi chiamavano Togliatti, UTET, 2018