Maria Ribot, in arte La Ribot (da pronunciare con la «t» finale!) è il frutto di un innesto ispano-svizzero dei più azzeccati, un’unione fuori dagli schemi che sfida le convenzioni per crearsi un angolo di paradiso in un luogo ancora inesplorato: fra mare e montagne, fuoco e ghiaccio. Approdata a Ginevra all’inizio degli anni 2000 dopo un soggiorno di quattro anni a Londra, La Ribot porta con sé un prezioso bagaglio di esperienze madrilene dal sapore almodovariano (artista con cui condivide una verve «décalé» impregnata di Movida). Un’identità molteplice, a tratti paradossale quella de La Ribot che si addice alla perfezione alla sua maniera di creare: al contempo rigorosa e stravagante, pluridisciplinare e in costante mutazione. Un’artista insomma che non si è mai preoccupata di piacere, ma che al contrario ha scavato nei meandri dell’inconsueto senza esitare a dichiarare di aver «sempre lavorato ai margini, in quello che non è la norma».
In quest’ottica, il fatto di ricevere il prestigioso Gran premio svizzero della danza 2019 potrebbe sembrare incongruo. Oppure al contrario, come rivendicato dalla coreografa (ma anche ballerina, videasta, drammaturga e chi più ne ha più ne metta) stessa, questo non rappresenta alla fine che un segnale positivo d’apertura delle istituzioni ufficiali verso qualcosa di «scomodo». «Non sono controcorrente di non so che cosa, sono libera e basta», risponde La Ribot a una giornalista che le chiede se non teme di essere riassorbita dalla cultura ufficiale attraverso questo importante premio. Una risposta semplice e chiara che mette in avanti un’individualità forte che si nutre di femminismo e attivismo (due aspetti indubbiamente presenti in tutti i suoi lavori) trasformandoli però in qualcosa di nuovo, arricchendoli d’un vocabolario unico, tanto indisciplinato quanto metodico.
Quello che è certo è che il 2019 può a tutti gli effetti essere considerato come «l’anno Ribot». Oltre a essersi assicurata un futuro più sereno (cosa non semplice per un’artista, sebbene la città e il cantone di Ginevra dove vive l’abbiano sempre sostenuta), la regina delle Piezas distinguidas gioisce quest’anno anche d’un’immensa retrospettiva di quasi tre mesi nell’ambito del Festival d’Automne di Parigi: un menu composto da cinque spettacoli e un’esposizione in due parti che ritraccia i suoi incredibili ventisei anni di carriera. Un riconoscimento decisamente glamour che La Ribot personalizza con la sua immancabile stravaganza, a cavallo fra le arti, i corpi (reali e immaginari, singoli e collettivi) e i generi (decisamente lontani da una stereotipata concezione binaria).
Alta, snella e muscolosa come una ballerina classica, con un viso atipico, intrigante e androgino che ricorda l’eleganza di un Buster Keaton, il tutto incorniciato da una chioma fulva che è diventata il suo marchio di fabbrica, La Ribot ha trasformato il suo corpo in strumento di una critica quasi palpabile, fatta di carne e ossa. Ciò che la contraddistingue in quanto artista è proprio il fatto che non si sia posta alcun limite rispetto all’utilizzazione del suo corpo al quale fa subire sperimentazioni d’ogni genere: dallo striptease umoristico e femminista di Socorro! Gloria! passando per Gustavia, un duo scatenato (interpretato insieme alla ballerina e coreografa francese Mathilde Monnier) che gioca sulla ripetizione estenuante del genere burlesco per trasformarlo in critica dei ruoli di genere preconfezionati, senza ovviamente dimenticare le sue mitiche Piezas distinguidas che impersona come fosse lei stessa un oggetto da esporre in una galleria d’arte o in un museo.
Potente e fiero, il suo corpo sembra fondersi con quello collettivo della scena fatto di spettatori, oggetti, musica, luci e costumi. In questa sorta di comunione con gli spettatori che non tiene mai a distanza, La Ribot dipinge attraverso le sue memorabili Piezas distinguidas (corte vignette mordaci e divertenti che mettono in scena il suo quotidiano e la sua propria versione della «donna», che vende come fosse un’opera d’arte ad acquirenti «distinti/e») tanti piccoli, stravaganti scenari di quello che ognuna di noi potrebbe essere.
Da sempre interessata al concetto di «corpo intelligente», la coreografa dalla chioma di fuoco gioisce dell’incontro con corpi atipici, o comunque meno comunemente rappresentati su scena. Corpi e attitudini che perturbano obbligando gli spettatori a cercare nuove chiavi di lettura. Rispetto agli interpreti con cui ha lavorato per Happy Island e che fanno parte della compagnia di danza inclusiva portoghese Dançando com a Diferença, La Ribot dichiara: «questi ballerini sono dei corpi intelligenti che non hanno veramente coscienza di esserlo». Un’intelligenza che non ha nulla a che vedere con il professionismo, ma che al contrario nasce dalla bellezza e dalla potenza che ogni corpo, con le sue particolarità, già possiede. Una spinta vitale verso mondi possibili che non abbiamo il coraggio di esplorare. «Gli ho insegnato come vivere nel corpo attraverso l’arte, la danza. Perché la danza cura», dice La Ribot a proposito del suo lavoro con la compagnia portoghese. La danza come antidoto al conformismo, come vento impetuoso che rovescia tanto le norme sociali quanto sceniche.
Sempre attenta a mettere sullo stesso piano interpreti, pubblico, corpo, immagini, suoni, testi e oggetti, La Ribot trasforma i suoi spettacoli in catarsi collettiva. Questa democratizzazione e transdisciplinarità, al centro di tutte le sue creazioni, l’hanno trasformata in figura maggiore della «danza figurativa» (danse plasticienne in francese). Una maniera di definire una pratica artistica che si nutre di arti sceniche ma anche visive per formare un tutto compatto e indissociabile. Non è un caso se La Ribot è stata una delle prime coreografe ad aver chiaramente utilizzato i musei e le gallerie d’arte come cornici delle sue pièces.
Un’attitudine che non deve però assolutamente essere considerata come snob o elitista, ma al contrario come gesto liberatorio e ribelle rispetto alle norme della rappresentazione scenica. Sovversiva, coraggiosa e fiera, La Ribot non conosce tabù e si getta nell’arena utilizzando il suo corpo come scudo, prendendo posizione rispetto a temi per molti versi scomodi: la sessualità, la rappresentazione di genere, l’handicap, la religione. Senza mai perdersi in un accanimento sterile, i suoi punti di vista restano comunque radicali sebbene sempre accompagnati da uno humour che fa parte integrante della sua personalità.
Una maniera d’esprimersi frontale e originale che non smette d’affascinare e che l’ha trasformata in una delle personalità indispensabili della danza contemporanea europea.