Pubblicata nel 1967 e rappresentata in quello stesso anno dalla Compagnia Brignone-Fortunato-Fantoni diretta da Luchino Visconti, La monaca di Monza di Giovanni Testori si apre con un monologo che è un campionario delle figure retorico–stilistiche più ricorrenti nel testo. Chi lo pronuncia è suor Virginia Maria, la monaca del titolo (al secolo Marianna de Leyva, 1575-1650), che si rivolge ai fantasmi di quanti ebbero una parte rilevantissima nella sua drammatica vicenda terrena: il padre Martino, che per mantenere indiviso il patrimonio familiare la indusse a prendere i voti nel monastero monzese di Santa Margherita; la madre, Maria Virginia, che la concepì durante un congiungimento carnale più simile a uno stupro che a un amplesso amoroso; il conte Gian Paolo Osio, l’amante, che la rese due volte madre (Testori ricorda soltanto il bambino nato morto) e di cui fu complice nell’assassinio di una conversa che era a conoscenza del loro rapporto e avrebbe voluto condividere l’esuberanza erotica dell’instancabile seduttore; don Paolo Arrigone, il prete lascivo che fece da mezzano; Francesca Imbersaga, la superiora che Marianna ridusse al rango di portiera; Caterina Cassini, la conversa uccisa da Gian Paolo e poi decapitata su istigazione di Marianna.
La rappresentazione integrale della Monaca di Monza richiederebbe dieci attori (ai personaggi sopra elencati ne vanno aggiunti tre: suor Ottavia, suor Benedetta, il Vicario Criminale), un numero imprecisato di figuranti (soldati, sicari, monatti, contadini), e durerebbe tra le cinque e le sei ore. Nel 1967, Visconti operò dei tagli che suscitarono l’ira del drammaturgo. Nel 2004, Elio De Capitani decise di sfrondare il testo in modo da ricavarne una rappresentazione (con Lucilla Morlacchi nel ruolo di Marianna) che durasse non più di due ore. Ancor più breve (un’ora e mezza) è lo spettacolo firmato da Valter Malosti, a cui si deve anche l’adattamento «a tre voci» che modifica profondamente la struttura del dramma.
In tutti e tre i casi, a mio parere, la decisione di sfoltire il testo è derivata, fra l’altro, dalle caratteristiche di una prosa così smodatamente farcita di figure retoriche e stilistiche (mi limito a segnalare le iterazioni, le accumulazioni, le varie forme di allocuzione, oltre ai gruppi innumerevoli – perlopiù ternari – di aggettivi, verbi o sostantivi collocati alla fine o nel mezzo delle frasi e dei periodi) da risultare in breve tempo stucchevole alla lettura e presumibilmente anche all’ascolto. L’impressione che di pagina in pagina si fa sempre più netta è di aver a che fare con un’opera in cui prevale la dimensione oratoria.
Probabilmente è una tale impressione che ha indotto Valter Malosti a trasformare il dramma testoriano in una sequenza di monologhi pronunciati da tre soli personaggi – Marianna, Gian Paolo, Caterina – che nella semplice ma efficacissima scena di Nicolas Bovey vediamo separatamente rinchiusi in tre cabine contigue (solo in due occasioni Gian Paolo e Marianna le lasciano per incontrarsi) che evocano gli interni del monastero di Santa Margherita; l’angusta e umida cella dove Marianna venne murata e visse reclusa per quattordici anni; il sotterraneo del palazzo dove Gian Paolo, fuggito a Milano dopo la condanna a morte in contumacia, fu dapprima accolto e poi fatto uccidere a bastonate dal conte Taverna, che credeva suo amico.
Ogni cabina è anche un esiguo palcoscenico (e la gabbia vitrea di un’aula giudiziaria, e un loculo verticale) la cui quarta parete è una lastra di plexiglass che Gian Paolo e Marianna, a un certo punto, sembrano voler infrangere a mai nude, e lungo la quale scivola il corpo insanguinato di Caterina. L’infrangibile lastra comporta l’uso dei microfoni: microfoni ad asta, per sottolineare il carattere oratorio, di volta in volta enfatico o autenticamente commosso dei monologhi. Estremizzata la staticità del dramma attraverso l’eliminazione dei dialoghi, Malosti ha messo in primo piano la parola, liberata per quanto possibile da eccessi retorici e ridondanze, esaltando al contempo – grazie anche alle luci di Nicolas Bovey – la presenza corporea degli attori, inquadrati come in certa ritrattistica seicentesca.
La loro gestualità è prevalentemente sobria, ma i capelli improvvisamente disciolti di Marianna (l’intensa Federica Fracassi); la scollatura nell’abito monacale che alla fine lascia scoperta una mammella; il torso nudo di Gian Paolo (l’energico e aitante Vincenzo Giordano) mentre giace a terra nel sotterraneo di palazzo Taverna; le mani e il volto insanguinati di Caterina (la brava Giulia Mazzarino), ci dicono con forza la verità del corpo: del corpo desiderante, soprattutto, che resiste e si ribella alla sua negazione e repressione: un tema che ricorre in tutto il teatro di Testori, e che qui diventa, per bocca di Marianna, un atto d’accusa contro le autorità terrene e contro un Dio distante, che tace.