Settanta avvincenti minuti di Moby Dick proposti da un accattivante narratore come Klaus Maria Brandauer (classe 1943) sono indubbiamente un bellissimo regalo, e per l’avido, vorace lettore e per un classico habitué delle sale di teatro. Un regalo, c’era da aspettarselo, accolto con enorme entusiasmo giovedì e venerdì scorsi dagli spettatori accorsi numerosi alla Schauspielhaus di Zurigo. E con l’appassionato, suadente e virtuoso Brandauer – che come molti di noi avrà letto, riletto, masticato e ruminato il capolavoro di Herman Melville tutta la vita – lì a scavare a fondo nel romanzo e a immedesimarcisi, non possiamo fare a meno di provare emozione di fronte all’indimenticabile incipit «Nennt mich Ismael» («Call me Ishmael», «Chiamatemi Ismaele»). Prendiamo dunque immediatamente a conoscere il narratore più da vicino, le sue filosofiche, ma anche divertenti riflessioni; lo ascoltiamo con grande attenzione quando racconta del ramponiere polinesiano Quiqueg da lui incontrato prima di imbarcarsi sulla baleniera Pequod, lo seguiamo quando fa la conoscenza di Starbuck, Stubb e Flask, rispettivamente primo, secondo e terzo ufficiale, e dell’intero, eterogeneo equipaggio. Con lui soffriamo il mal di mare o diventiamo marinai e salpiamo a caccia della balena bianca.
Proprio come il capitano del Pequod, con tutta probabilità una delle figure più straordinarie e complesse della letteratura mondiale, biblica e scespiriana a un tempo: Achab (che ricordiamo anche nell’interpretazione cinematografica di Gregory Peck), una sorta di fanatico, iracondo e misantropo Prometeo, per giunta oltremodo monomaniacale in quanto in preda, più che a un’idea fissa, a un’ossessione profonda e oscura come l’abisso oceanico. Un’ossessione febbrile che si chiama Moby Dick. Sì, proprio lei, la mitica, inafferrabile balena bianca che già una volta lo ha umiliato e sconfitto staccandogli una gamba con un possente colpo di coda, e per la cui uccisione ha promesso a ciascuno una moneta d’oro.
Non da ultimo in forza del noto virtuosismo di un Brandauer non soltanto coinvolgente, ma anche coinvolto, all’improvviso ecco che cominciamo a renderci conto di come quest’opera – monumentale e ricchissima di simbologia – sia molto di più del solito romanzo di avventura, e di come questa terrificante caccia all’enorme capodoglio sia del tutto marginale. Le vicende narrate in Moby Dick trascendono infatti ogni tempo e luogo, e ciò che Melville magistralmente descrive va ben oltre la solita epopea marinaresca, e ben oltre, altresì, l’eterna battaglia tra uomo e natura, la lotta tra l’uomo e il mostro, o più precisamente tra l’uomo che, non riuscendo o non volendo rendersi conto dei limiti imposti alla sua misera condizione, sfida le immani forze della natura.
La balena bianca e il suo indefesso cacciatore assurgono qui a poderosa metafora dell’impari, angoscioso confronto con il nero dell’incognito o contro Dio, e di quel tragico spettacolo del fato inesorabile e ineluttabile che sempre finisce con l’eterno duello con la morte. Alla fine sarà infatti la scaltra, rabbiosa, imbattibile Moby Dick, ad averla vinta sulla baleniera da cui si allontanerà pacifica e indifferente, giacché solamente Ismaele, il narratore (furbo il nostro autore), riuscirà a sopravvivere al forsennato viaggio verso l’ignoto.
Questa felice proposta della Schauspielhaus è più una lettura-spettacolo che un semplice reading d’autore, e ciò certamente grazie a quella che è la spettacolarità tipica di tutte le lotte impari, che siano poi contro le balene o contro parossistiche ossessioni; ma senza ombra di dubbio anche grazie al carisma del celebre attore austriaco, per l’occasione accompagnato da Arno Waschk al pianoforte, il quale ha alternato al testo eloquenti inserti musicali. Grati, scroscianti e interminabili gli applausi del foltissimo pubblico, e fiori per Klaus Maria Brandauer.