Seconda moglie di Teseo (re e legislatore di Atene, protagonista di straordinarie imprese), Fedra era figlia di Minosse, re di Creta, e di Pasifae, «la splendente», «che s’imbestiò nelle ’mbestiate schegge», ovvero – parafrasando il mirabile verso dantesco –, che soddisfece il desiderio di copulare con un toro nascondendosi in una vacca di legno. Così racconta il mito di Fedra, nota soprattutto per la sua travolgente e non corrisposta passione per il giovane figlio di Teseo e dell’amazzone Antiope, il bellissimo Ippolito, casto cacciatore, devoto di Artemide e spregiatore delle donne.
Ho cominciato ricordando Pasifae e la sua «passione mostruosa» perché nella tragedia di Seneca vengono menzionate a più riprese. Nello smanioso desiderio della regale matrigna, sia la stessa Fedra, sia la nutrice, sia il selvaggio e intransigente Ippolito denunciano, con accenti diversi, una predisposizione ereditaria alle «passioni proibite»: predisposizione che Fedra, a un certo punto, chiama «destino». Nella visione fortemente etica ma non impietosa di Seneca, la follia amorosa (il furor) di Fedra è una pulsione oscura che la ratio, per impotenza della voluntas, non riesce a dominare, e della quale diviene complice. In ciò, la tragedia senecana differisce nettamente dall’Ippolito di Euripide, dove non si fa parola della vicenda di Pasifae, e la passione di Fedra per il figliastro è conseguenza ineluttabile della volontà punitiva di Afrodite, che attraverso di lei intende vendicarsi del tracotante disdegno di Ippolito, che alla dea dell’amore preferisce la casta Artemide.
Rappresentare le tragedie di Seneca significa affrontare le difficoltà create da ciò che ha indotto la più parte degli studiosi a ritenere che non fossero scritte per la scena ma per le sale di recitationes. Ciò che crea difficoltà sono i dialoghi spesso sentenziosi, la scarsa o nulla dialetticità del coro, la lunghezza dei monologhi, la staticità dell’azione. Sembra dunque necessario, in vista di una messinscena, manipolare in varia misura il testo. Volendo evidenziare che la passione amorosa non è il prodotto di volontà e potenze esterne, bensì una forza ingovernabile che erompe dall’insondabile profondità dell’individuo, cosa ha deciso di fare il regista Andrea De Rosa? Per ragioni di spazio mi limiterò a segnalarne le scelte che considero di maggior rilievo.
1) Ai monologhi di Ippolito e Fedra con cui si apre la tragedia senecana ha premesso quello dell’Afrodite euripidea, inducendo in tal modo lo spettatore a credere che la passione di Fedra (Laura Marinoni) è frutto della malevolenza di una dea. 2) Ha costruito un epilogo in cui una Venere-Afrodite dall’aria vissuta (Anna Coppola, in pantaloni e giacchetta di velluto rosso) abbandona la scena affermando didatticamente che in Seneca non ci sono dei e che gli dei sono dentro di noi. 3) Ha ridotto di molto il ruolo della nutrice che ha sostituito con una ragazza di piacevole aspetto (Tamara Balducci). 4) Ha eliminato il coro assegnando una piccola parte delle sue riflessioni ai personaggi e alle ombre dell’Ade (che in Seneca non esistono). 5) Ha mostrato in modo inequivocabile che Ippolito (Fabrizio Falco) è fisicamente attratto sia dalla ragazza che dalla matrigna e che reprime nevroticamente il proprio desiderio. 6) Ha fatto di Teseo (Luca Lazzareschi) un brutale stupratore della moglie. 7) Ha collocato al centro della scena (firmata da Simone Mannino) un grande cubo di plexiglass: spazio separato e metaforico luogo di costrizione da cui Fedra e Ippolito desiderano fuggire. 8) Ha dispiegato una quantità di effetti luminosi e sonori grazie anche all’uso di numerosi microfoni ad asta. Insomma uno spettacolo per vari aspetti discutibile e complessivamente avvincente. Bravissimi gli attori.