La parola spetta agli uomini

Mary Beard in Donne e potere mostra quanto sia radicata, anche nella cultura occidentale, l’idea che parlare in pubblico sia «cosa da maschi»
/ 16.04.2018
di Mariarosa Mancuso

Serviva una storica per fissare il momento esatto. L’inizio della censura, l’origine di tutte le donne zittite o sbeffeggiate dall’antica Grecia fino all’altro ieri (chi scrive ha sentito con le proprie orecchie apostrofare di «galline» due femmine che con voce più alta del normale discutevano sul posto di lavoro: quando lo fanno i maschi, trattasi di virile e appassionata discussione). Serviva Mary Beard per mostrare quanto profonda sia, anche nella cultura occidentale, l’idea che la parola pubblica spetti ai maschi. 

L’episodio sta in un testo cardine come l’Odissea. A dire testo, qualche brividino filologico corre giù per la schiena, i poemi omerici nascono come versi da recitare ai banchetti: un’altra brillante storica come Florence Dupont ha scritto un libro per dimostrare che hanno molte cose in comune con Dallas e altre soap opera. È il bello dei classici, indistruttibili e pronti a farsi riciclare ogni volta che se ne presenta l’occasione. Hanno sempre qualcosa da dire, anche nelle situazioni più bizzarre: chi mai avrebbe scommesso, qualche anno fa, sul successo strepitoso di Wonder Woman, supereroina ispirata alle amazzoni guerriere?

Per constatare una vitalità che va molto oltre il luogo comune «attualità dei classici» (se sono interessanti, è perché aprono prospettive diverse), Einaudi ha appena pubblicato Un’Odissea di Daniel Mendelsohn, anche lui classicista – ma di quelli che sanno scrivere cose sensate su Kill Bill di Quentin Tarantino. Teneva un corso su Omero, quando il padre più che ottantenne gli chiese di frequentare le sue lezioni. Il professore disse sì, il vecchio genitore si presentò il primo giorno assieme agli allievi diciottenni. E cominciò a far domande da matematico, per nulla affascinato dall’eroe mentitore. «Sarà un incubo», pensò il professore già pentito – e siccome l’Odissea parla (anche) di padri e di figli, di figli adulti e di vecchi genitori, di viaggi e del diventare adulti, molte ancora saranno le sorprese.

Ritroviamo Telemaco al centro dell’episodio additato ai posteri da Mary Beard in Donne e potere (Mondadori). Siamo a Itaca, Penelope scende nel salone della reggia dove un aedo sta intrattenendo i corteggiatori che ambiscono alla sua mano (Ulisse è via da tanto tempo, tanto vale darlo per morto). L’aedo canta storie tristi, di eroi greci che incontrano ostacoli sulla via del ritorno a casa. Penelope non gradisce, chiede al cantore di intonare qualcosa di meno deprimente, e soprattutto qualcosa che non faccia l’effetto «corda in casa dell’impiccato». 

Arriva Telemaco giovinetto, e ordina perentorio: «Madre mia, va’ nella stanza tua, accudisci ai lavori tuoi, il telaio, la conocchia, e comanda alle ancelle/ di badare al lavoro: la parola spetterà qui agli uomini / a tutti e a me soprattutto, che ho il potere qui in casa». Penelope incassa, non reagisce, si ritira in buon ordine, mentre immaginiamo che nel salone della reggia continui a risuonare la lagna triste.

Con un precedente come questo, la parola pubblica delle donne nasce già morta. O ridicolizzata, come fa Aristofane in Le donne al parlamento: le femmine prendono il potere ma continuano a non saper parlare in pubblico, hanno sempre il tono del pettegolezzo (a sfondo sessuale, perlopiù). Sulla stessa linea vedremo schierato Jonathan Swift, nei Viaggi di Gulliver: i saggi propongono una riforma del linguaggio, dove le cose sostituiscono le parole. Le donne fieramente si oppongono, perché è nella loro natura chiacchierare sul nulla.

Qualche donna soltanto infrange il divieto di parlare in pubblico, nel primo secolo un compilatore di antologie fa l’elenchino dei mostri. Una sembra una donna, ma ha un animo virile. Una ha l’impudenza di arringare in tribunale, ma le escono di bocca solo «latrati e guaiti». Una parla a nome di tutte le donne, per difendere interessi di categoria (quanto a parlare «anche» per i maschi, giammai). L’unica libertà di parola pubblica è accordata alle vittime, meglio se in punto di morte (ammesso che il cattivo di turno non tagli la lingua alla stuprata Filomela).

Mary Beard insegna a Cambridge, e cura gli articoli sull’antichità classica del «Times Litteram Supplement», è attiva su twitter dove ogni tanto viene minacciata di morte o orribili torture. Studia gli antichi e non dimentica i moderni: l’attacco di misoginia che contribuì a far vincere le elezioni a Donald Trump è ancora tutto da studiare, altro che Cambridge Analytica. E Margaret Thatcher fece un corso di dizione, per rendere la voce più profonda, e quindi maschile.

Bibliografia
Mary Beard, Donne e potere. Per troppo tempo le donne sono state messe a tacere, edizioni Mondadori collana Orizzonti, 2018