Se è vero che avremmo, tutti, una storia vissuta da raccontare, è altrettanto vero che renderla pubblica, attraverso un libro, può rivelarsi un rischio. E, paradossalmente, più insidioso proprio per chi, con la scrittura, ha avuto un intenso rapporto professionale, come succede al giornalista. Allenato a usare le parole, per obiettivi precisi, imposti dall’attualità e dalla pagnotta, ecco che, nella pagina del libro, trova uno spazio libero, pienamente a disposizione del suo estro e del suo pensiero. Bisogna, insomma, cambiare registro, e non è un passaggio indolore.
Ne era consapevole Marco Horat, da decenni voce e firma affermata del nostro giornalismo, e, adesso, autore di un libro, dal titolo, che, a prima vista, può magari disorientare: Soprusi. Storie di ordinaria sopraffazione, edizioni Ulivo. Viene infatti da pensare a un saggio socio-politico o a un pamphlet. Si tratta invece di un racconto, o romanzo breve, al quale Horat affida il bagaglio dei ricordi e delle esperienze, ricavandone gli spunti per recuperare il proprio passato, e d’altro canto, per denunciare le storture dell’epoca. Si apre così un percorso narrativo lungo un doppio binario, fra vicende private e situazioni pubbliche, in un intreccio dove la finzione letteraria fa da filtro alla realtà e, a volte, prende il sopravvento.
Succede quando il protagonista, Sven, un uomo di mezz’età, deluso da un lavoro alienante, oppresso da un ambiente che rinnega i valori in cui lui credeva, privo di affetti veri, cerca un aiuto. E si rivolge al padre, che non c’è più. Lo riscopre, o meglio lo scopre, attraverso un variegato materiale postumo: diari, lettere, annotazioni, disegni, fotografie che ricostruiscono una figura in cui Sven finisce per identificarsi, diventando l’alter ego del papà. Ne fa sue le predilezioni, le scelte culturali, l’amore per il Giappone, per la natura, per fiori e gatti. Proprio esplorando l’universo segreto di un defunto, paragonabile a una sorta di appropriazione indebita, l’autore rivela la sensibilità di cogliere lo smarrimento dei momenti cruciali dell’esistenza.
Con ciò Horat, fedele al titolo, rispetta l’impegno della denuncia, d’ordine morale e ideologico. È il filo conduttore con cui, a ogni episodio del racconto, aggancia il riferimento a un guaio, un’ingiustizia, una minaccia tipici di un’epoca, per lui, sempre più invivibile. Tuttavia questo meccanismo di causa effetto a volte s’inceppa. La crisi bancaria, provocata dalla rozzezza e dall’ottusità di dirigenti ridicoli? I buoni pellirossa e i bianchi sempre cattivi? Sarà, ma qualche dubbio si giustifica.
A ragion veduta, però, Marco Horat, uomo di tanti interessi ben coltivati, fra cui l’archeologia, non si lascia mai prendere la mano dalla rabbia del contestatore a ogni costo, dell’incazzato che disprezza il mondo. Non grida. La sua è un’indignazione pacata.