Sarà anche vero che i nostalgici del rock anni 60 sanno essere perfino più integralisti dei membri di una setta – e, spesso, anche ben poco obiettivi davanti alle loro passioni; eppure, pur dando il giusto peso alla nostalgia, vi sono comunque alcune verità tuttora impossibili da ignorare. Tra queste, il fatto che non occorre aver assistito in prima persona alla leggendaria stagione della «British Invasion» per essere inguaribilmente innamorati dei The Who, forse la più iconica tra le formazioni di quell’incredibile periodo – soprattutto dal momento che, a oltre cinquant’anni dagli esordi, la band costituisce una realtà ancora viva e presente sui palchi internazionali, nonché in grado di regalare grandi emozioni; e questo sebbene la line-up originale sia ormai ridotta al semplice duo composto dagli «eterni ragazzi» Roger Daltrey (frontman e voce) e Pete Townshend – chitarrista, ma anche geniale mente dietro ogni successo del gruppo.
Nonostante ciò, una certa apprensione circondava comunque questo WHO, primo album da tredici anni a questa parte: un disco che si presenta come dichiarato tributo alle suggestioni di un passato sempre più ammantato di leggenda – a partire dalla copertina, tripudio di icone sixties (da Mohammed Ali a Chuck Berry), nonché dei feticci personali della band (su tutti, l’immancabile istantanea che vede Pete pronto a distruggere l’ennesima chitarra sul palco). E del resto, basterebbe l’incipit della canzone d’apertura, All This Music Must Fade («non me ne importa, ma so che odierai questa canzone»), per rendersi conto di come il CD rappresenti un vero e proprio ritorno a quell’irresistibile, candida sfrontatezza che è sempre stata il marchio di fabbrica dei nostri.
WHO diviene così una fusione consapevole quanto magistrale tra l’eterno, inconfondibile sound della band e una forma sottile, eppure mai condiscendente, di energica e quasi brutale contemporaneità. Ma ciò che più lascia stupefatti – e, a voler essere sinceri, perfino commossi – è l’eterna potenza e freschezza della voce di Daltrey, la quale, insieme alla forza espressiva tuttora dimostrata da Townshend, costituisce senz’altro uno dei grandi miracoli rock di sempre; lo dimostrano l’epicità dei travolgenti Hero Ground Zero e Break the News – e, soprattutto, di I Don’t Wanna Get Wise, sorta di nuova, aggiornata dichiarazione d’intenti da parte degli eterni scavezzacollo di un tempo, perfettamente in linea con il carattere di chi, in uno dei propri maggiori successi, aveva cantato «spero di morire prima di diventare vecchio». Un concetto oggi ammantato di una certa ironia, considerando le meraviglie di cui ancora Pete e Roger sono capaci e, soprattutto, la loro riluttanza e incapacità ad «appendere il microfono al chiodo».
Così, ecco che quest’invidiabile capacità di ricreare il passato nei minimi particolari dà a tratti origine a un «effetto flashback» quasi surreale, come accade con la bonus track Got Nothing To Prove, vecchio demo che sembra giungere direttamente dalla Summer of Love del ’67; e per quanto godibili, è probabile che, per alcuni ascoltatori, brani come Detour e Rockin’ in Rage appaiano un po’ troppo reminiscenti del repertorio giovanile della band per risultare davvero coinvolgenti. Eppure, l’implicita bellezza dell’album risiede proprio nella sua capacità di «innalzare un ponte» tra presente e passato: come negare la meraviglia del vibrante e ribelle Ball and Chain, certo una delle cose migliori prodotte dalla formazione negli ultimi vent’anni? E poi ci sono, naturalmente, le tracce a cavallo tra il più sfacciato «stile à la Who» e una dimensione maggiormente cantautorale e, per certi versi, attuale: si vedano This Gun Will Misfire – in cui l’usuale leggerezza tipica del gruppo si ammanta nuovamente di un’inquietudine dai toni socialmente impegnati – e i felici intermezzi romantici I’ll Be Back e Beads on One String; per non parlare della ballata She Rocked My World, stupefacente connubio tra leggiadre sonorità jazz e cadenze tipiche della bossa nova, in cui la voce abitualmente appuntita di Roger si fa suadente e vellutata.
E vista la forza di simili performance, diviene ancor più difficile non domandarsi per quale motivo un lento dal gusto retrò come Danny and My Ponies (struggente parabola sull’imperturbabile saggezza di un vagabondo dimenticato da tutti) veda Townshend macchiarsi dell’unica concessione «modaiola» del CD – cedendo, nonostante una voce ancora ampiamente capace di sfumature emotive e toccanti, alle lusinghe di quel flagello moderno che è l’odiato autotune.
Tuttavia, nonostante gli occasionali limiti, WHO resta un autentico trionfo per qualsiasi vero fan dello storico ensemble: e, come tale, un’occasione per suscitare meraviglia, e perfino una qualche forma di intima commozione, anche in chi non ha ancora avuto la fortuna di sperimentare la gioia data dal repertorio sprezzante e gioioso di Pete e Roger – vere icone del rock che, una volta di più, hanno dimostrato al mondo la propria immortalità.