Governi ed economisti a fine anno diventano matti: come calcolare il grado di felicità di una popolazione? L’Onu afferma che nel 2017 i più felici sono stati i norvegesi, seguiti da danesi, islandesi e poi subito dagli svizzeri. L’Italia è a un vergognoso quarantanovesimo posto, dopo Guatemala, Slovacchia, Uzbekistan. Fino a pochi anni fa, si calcolava solo il Pil: più soldi, quindi più salute, maggior benessere, superiore grado di felicità. Poi, grazie anche a pensatori come Amartya Sen, si è riflettuto sul fatto che anche i ricchi piangono. Non tutti ne sono convinti, ma timidamente si affacciano indicatori sociali, si tiene conto di matrimoni e nascite, di occupazione e uguaglianza, cosette così.
In verità, e ogni anno a fine dicembre ce lo ricordiamo, nemmeno a livello personale è facile dire se quello passato sia stato un anno più o meno felice dei precedenti, fatichiamo anche a dire se abbiamo vissuto un giorno felice, un’ora felice, dei momenti di felicità. Spesso, infatti, ciò che dovrebbe renderci felici non raggiunge lo scopo: un viaggio, un successo, un complimento. Magari riescono a scuoterci dall’apatia quotidiana, se siamo apatici, o dalla fatica di un periodo triste, se siamo tristi. Ma la felicità deve essere ben altro, ci diciamo.
Il nostro «felice» viene dal latino felix, da cui anche felicitas: la radice è la stessa di fecundus, femina (o foemina) e fetus (o foetus), da una forma arcaica *fe. Non dovrebbe stupire, in latino felix significa innanzitutto fertile, fruttifero, e solo in senso traslato indica colui che è beato o fortunato, oppure colui che porta fortuna, che è propizio e favorevole. Qui c’è una prima inversione di senso: quando diciamo «beato te!» o «me felice!», intendiamo ma guarda quale bella cosa è capitata a te o a me; invece il senso principe della felicità, almeno il suo senso etimologico, è ma guarda quanta vita darai, quanta fortuna porterò.
La felicità non sarebbe dunque un evento che accade – oggi a te domani a me – da attendere passivamente, ma sarebbe invece un attivo prodursi per il bene altrui, diventare fecondi perché vi siano frutti, non necessariamente solo nel proprio orto, ai piedi del proprio albero. Non è poi così peregrina, questa etimologia. In fondo, poche felicità sono così piene come quella di una mamma quando è felice (per esempio finché i figli sono piccoli e magari anche sani), d’altra parte poche tristezze sono paragonabili alla solitudine, all’avarizia esistenziale di Ebenezer Scrooge. Il protagonista del Canto di Natale di Charles Dickens, che poi avrebbe ispirato Scrooge McDuck, il nostro Paperon de’ Paperoni, dal 1843 è inteso come la quintessenza dell’egoismo infelice. Prima della notte in cui gli appaiono gli Spiriti del Natale, le feste lo rendono furioso, perché sono giorni in cui non si lavora, quindi non si guadagna. L’attenzione al suo profitto (al suo Pil!) lo distoglie dalle vite degli altri, la gioiosa celebrazione del Natale, per quanto povera e semplice, lo irrita ancora di più. Solo i primi gesti di generosità concedono anche a Scrooge la pace del cuore.
Sembrerebbe dunque tutto così semplice: cercando la felicità altrui si fa la propria, evviva. Fosse così facile come dirlo. Quante volte abbiamo fallito nel tentativo di dare la felicità, o ci siamo sentiti infelici pensando di occuparci della beatitudine altrui. In verità, ci sono alcuni equivoci da smascherare. Occuparsi degli altri, infatti, non significa arruolarsi nell’Esercito della Salvezza, indossare l’uniforme, aggirarsi in cerca di qualcuno cui concedere aiuto. Questo è ancora aiutare malamente se stessi, salire su un piedistallo da cui dispensare buone parole e sacrifici.
Scrive Massimo Recalcati in Contro il sacrificio (Raffaello Cortina editore, appena uscito) che «il sacrificio non è una semplice rinuncia al soddisfacimento ma una forma masochistica del soddisfacimento», si tratta di «un fantasma che proviene da una interpretazione solo colpevolizzante del cristianesimo», che naturalmente lo travisa, intendendo l’uomo fatto per la Legge e non il contrario. Non quindi il triste dovere che porta a obbedire al super-Io, a consegnare l’inconsegnabile propria vita a un Altro, si tratti del cosiddetto Califfato Islamico, della Famiglia, del Lavoro o di qualunque cosa in nome della quale eseguiamo dei compiti contro la nostra volontà, il nostro desiderio. Un desiderio che, poi, è sempre e solo desiderio di felicità. Quanto più possibile piena assoluta durevole. Ne abbiamo esperienza? Non credo. Però vi tendiamo, la desideriamo con tutto il cuore, quando ci liberiamo dal senso del dovere e, appunto, di un sacrificio che dal cuore non sorge.
Noi conosciamo momenti di felicità, come racconta Marc Augé in un libro così intitolato, una sorta di breve autobiografia in cui l’anziano antropologo si domanda che cosa lo ha reso o lo rende felice. Tralasciando alcune sue considerazioni teoriche, personali e per me poco condivisibili, tra i primi ricordi di felicità Augé racconta dei tanti attimi fuggiti dell’infanzia, quando sulla felicità non ci interrogavamo, ma ne godevamo sorsate intense. Anche io, se penso alla felicità, penso al mare, al sole, alla mamma che ci dava la merenda, ai giochi con fratelli e cugini, e tutto era così semplice e tranquillo. Certo, non dovevamo decidere nulla!
Quindi è importante la scorta di felicità fatta da bambini, se l’abbiamo fatta, ma finisce presto. E poi ci sono i momenti. Quelli in cui quella pienezza mai provata ma intuita sembra farsi presente. Spesso non ce ne accorgiamo neppure, non vediamo la fatina che ha sparso porporina sul nostro quotidiano, magari sentiamo dopo che qualcosa è accaduto. Il cuore ha perso un colpo, l’inatteso è comparso, la mente si è sentita leggera. Oppure, semplicemente, la replica di un rito quotidiano, un bacio, un caffè, ci ha concesso la pace che nessun discorso saprebbe regalare. Un’ape «che se posa su un bottone de rosa, lo succhia e se ne va» (Trilussa), sì, la felicità è proprio «una piccola cosa».