La dislocazione dell’arte

Land Art - Storia di un movimento eterogeneo, sospeso fra Minimalismo e Concettualismo e fra Stati Uniti ed Europa – Parte seconda
/ 29.07.2019
di Emanuela Burgazzoli

«L’opera è il luogo»: sono parole del britannico Andy Goldsworthy, uno degli esponenti europei della Land Art, movimento che ha avuto il suo baricentro negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta. La sua ricerca si ispira alle opere dei padri fondatori della Land Art, come Smithson o Heizer, ma il suo gesto mantiene una certa delicatezza, percepibile anche nei suoi famosi archi in pietra e i suoi «buchi»; Goldsworthy crea opere fragili ed effimere, con i soli materiali naturali che trova sul posto, come le spirali di foglie di Autumn Horn o le piccole sculture di ghiaccio, realizzate nei boschi del Dumfriesshire, vere e proprie meditazioni sul tempo e sul mutamento. Una delle sue opere più importanti e monumentali si trova però a New York per il parco dello Storm King Art Center di Mountainville: un muro di pietre lungo 700 metri che si snoda disegnando una linea che riconfigura lo spazio naturale.

Siamo lontani quindi dai gesti radicali dell’«earth artist» della prima ora, l’americano Walter De Maria, che con una leggendaria installazione del 1968 a Monaco, aveva riempito la galleria Heiner Friedrich con 45 metri cubi di humus, rendendo così la terra una pura presenza fisica. De Maria, che ammira la bellezza delle catastrofi naturali, in una versione moderna del «sublime», è anche l’autore del famoso Lightning Field, un campo di fulmini costituito da 400 barre d’acciaio: un’installazione visitabile soltanto a condizione che il visitatore si fermi per un giorno.

Torna quindi il tema della relazione intellettuale e fisica con le opere, dell’isolamento e del deserto, come nei Sun tunnels di Nancy Holt, grandi tubi di calcestruzzo disposti a X forati nella metà superiore per permettere alla luce solare o lunare di proiettare cerchi ed ellissi sulla metà inferiore. Ben diversa l’esperienza di chi scende nei tunnel sotterranei creati da Alice Aycock, come in A simple network of underground tunnels (1975), sculture architettoniche in cui l’artista cercava di immergere l’osservatore in una situazione claustrofobica. Il rapporto fra paesaggio naturale e forme costruite ricorre anche nelle installazioni di Mary Miss che cela nella natura torri e strutture sotterranee.

Di carattere performativo invece l’opera della cubana Ana Mendieta, che negli anni Settanta con la serie «Silueta» imprimeva letteralmente nella terra l’impronta del proprio corpo.Non si può però parlare di Land art senza citare la celebre coppia Christo-Jeanne Claude, che ha inaugurato una nuova forma di intervento con la pratica dell’involucro; dai primi piccoli «wrap» degli anni Sessanta fino ai progetti monumentali che prevedevano l’imballaggio di interi monumenti (dal Pont-Neuf parigino al Reichstag a Berlino, alla Kunsthalle di Berna) o di veri e propri pezzi di paesaggio, come in Wrapped coast, opera che nel 1969 ha «ricoperto» un tratto di costa australiana.

Nel 1972, dopo vari tentativi, la Valley Curtain, un gigantesco telo arancione, viene teso attraverso una gola nelle Montagne rocciose, costituendo una gigantesca interruzione nel paesaggio, cambiandone la percezione – anche se per pochi giorni – e facendo riflettere sul concetto di confine geopolitico. Criticati perché erano opere monumentali anche nel costo, ma autofinanziate dagli artisti con la vendita dei progetti, modelli e foto, gli interventi di Christo innescavano quasi sempre anche l’opposizione degli ambientalisti.Destino comune a molte opere che sembravano opporsi a una crescente consapevolezza ecologica e anche paradossale, se si pensa che molti dei «land artist» intendevano ripensare la relazione fra ambiente e uomo, proponendo progetti di integrazione tra società e arte; arte che, secondo le parole di Smithson, «deve agire all’interno dei processi produttivi e di recupero; perciò è necessaria un’educazione artistica basata sulle relazioni con luoghi specifici».

E molte opere di ispirazione ecologista sono state realizzate da alcune «earth artist», più sensibili alle finalità sociali dell’arte, dalla «fattoria urbana» di Bonnie Sherk, all’ecosistema ricreato sul fondo dell’oceano da materiali di scarto del carbone da Betty Beaumont fino ai parchi di recupero ambientale di Patricia Johanson. Ma i progetti con maggiore impatto politico sono quelli di Agnes Denes che nel 1982 realizza un campo di grano sopra la discarica di Battery Park a Manhattan e progetta per la Finlandia il Tree Mountain, una montagna di diecimila abeti bianchi, presentata durante l’Earth Summit di Rio del 1992, che resta il più grande monumento sulla terra di portata internazionale, messo sotto tutela per quattro secoli.