«Nell’ambito di questa danza (che potremmo definire d’improvvisazione) ero sicura di avere qualcosa da offrire e che sarei diventata un’artista: non una grande artista come ce ne sono tanti in pittura, ma se volete, una piccola grande artista. Ed è quello che sono diventata!». È con queste parole che la piccola immensa Simone Forti parla di sé e della sua ricerca artistica, apparentemente semplice ma in realtà estremamente complessa, profonda, quasi mistica. «Si tratta di avere un’idea, nient’altro che un’idea, e di lanciarsi», una direttiva concisa che ha le sembianze di un haiku e che si rivela essere un punto di partenza straordinariamente ricco attorno al quale lasciare vagare la fantasia, dentro al quale tuffarsi con tutti i sensi all’erta.
Per la prima volta in Svizzera, la Kunsthaus Baselland ha recentemente riservato a quest’importantissima «artista del movimento» («movement artist» in inglese), una mostra personale stuzzicante e proteiforme. Grazie ad alcuni video che documentano le differenti performances di Forti e ad altri nati proprio in quanto materiale filmico, oltre che a disegni, installazioni e alla presentazione di tre lavori seminali dell’artista – Huddle, Slant Board e Platforms – interpretati da un gruppo d’artisti e ballerini basilesi, la Kunsthaus Baselland ha offerto una vera e proprio full immersion nel mondo affascinante di un’artista straordinaria.
Forse meno nota che altri suoi coetanei quali la ballerina, coreografa, terapeuta del movimento e tanto ancora Anna Halprin (che è stata anche la sua insegnante e con la quale ha a lungo collaborato), o le sue compagne di viaggio Trisha Brown, Lucinda Childs e Yvonne Rainer, che hanno contribuito alla nascita del famoso Judson Dance Theater, Simone Forti ha saputo seguire il suo istinto e le sue intuizioni fino in fondo senza curarsi delle etichette, navigando fra danza, pittura, scultura, filosofie orientali quali il Tai-chi e lo studio del comportamento animale. Una curiosità e una fluidità di pensiero che hanno però sempre avuto un denominatore comune: il corpo come strumento di conoscenza. L’esperienza vissuta attraverso il corpo acquista, all’interno del prisma di Forti, un’infinità di sfumature che passano per lo più inosservate. Ogni gesto, anche il più banale, se estrapolato dalla frenesia del quotidiano, come un fermo immagine o una foto formato Polaroid, è portatore di un significato profondo.
Culturalmente distante dalle sensazioni corporee (per lo più relegate in secondo piano), la società occidentale è andata via via perdendo il legame sacro e indispensabile fra corpo e mente, attribuendo a quest’ultima un potere spropositato, quasi dispotico. Attraverso le indagini di Simone Forti, che la Kunsthaus Baselland ha distillato come tante indispensabili medicine, la cinestesia viene infine rivalutata in quanto indispensabile ricettacolo di conoscenza. «Forse sto espandendo qualcosa che facciamo già naturalmente ma di cui spesso non siamo coscienti, un flusso sottile di gesti fisici», dice Forti parlando delle sue performances spesso basate su movimenti quotidiani delimitati da piccoli schemi. Cosa ci dice il corpo del nostro presente? Cosa possiamo scoprire di noi stessi, degli altri, della realtà che ci circonda, attraverso i segnali che il corpo (cosciente) ci lancia? Nella sua performance News Animations, Forti parte da una serie di ritagli di giornale sparpagliati sul suolo, che ritrascrive secondo le sensazioni che queste stesse immagini suscitano corporalmente. Segnali che spesso passano sotto silenzio, sopraffatti da un filtro cerebrale onnipresente nella nostra interpretazione del reale. Eppure il corpo, con il suo linguaggio immediato e non ancora codificato, spesso ci parla di noi più di quanto vi riescano le parole.
L’improvvisazione e l’associazione libera d’immagini dissonanti ed intuitive diventano gli strumenti attraverso i quali Simone Forti sperimenta e decortica il movimento. Il suo universo artistico, che rifiuta la discriminazione estetica, si concentra tanto sui gesti quotidiani apparentemente banali come il salire le scale, quanto sui movimenti dei bambini al contempo ripetitivi e di un’affascinante semplicità, fino a inglobare le reazioni animali che ha a lungo osservato e alle quali si è ispirata per il suo lavoro d’improvvisazione.
Uno dei risultati maggiori di questa ricerca, presentato a Basilea nell’ambito della personale a lei dedicata, è Huddle, una performance-scultura o danza-costruzione in costante evoluzione che vede coinvolti un gruppo di ballerini (di solito sei o sette) posizionati in modo compatto tenendosi le spalle a vicenda, come a formare un piccolo scoglio umano. A turno ogni ballerino si stacca dalla massa cominciando a scalare la scultura formata dai corpi dei suoi compagni d’avventura, atterrando al lato opposto rispetto alla sua posizione iniziale. Si tratta di un’esperienza collaborativa durante la quale il gruppo che supporta il ballerino in movimento procede a tanti piccoli aggiustamenti non pianificati né diretti da un leader, ma frutto del momento presente dell’azione. Allo stesso tempo lo «scalatore» deve negoziare i suoi movimenti in base alle reazioni dei suoi partner: dove piazzare un ginocchio, una mano, e decidere quando sdraiarsi in cima alla scultura umana per infine ridiscendere.
Completamente sprovvista di qualsiasi obbligo estetico o coreografico, Huddle, nata nei primi anni Sessanta, rappresenta una vera e propria rivoluzione distaccandosi dalla danza post moderna allora in voga e riallacciandosi piuttosto alla corrente artistica della performance. Nell’insegnamento Simone Forti è ancora oggi estremamente chiara e concisa rispetto alle sue aspettative: «dovete solo scalare (dice ai suoi ballerini). Cerco di conservare questa qualità originale». Una semplicità d’insieme arricchita dall’insicurezza del momento presente, e dall’assenza di regole precise. Una performance in divenire che si nutre di movimenti inaspettati e costantemente rinnovati.
Anche loro facenti parte delle così dette Dance Constructions create negli anni Sessanta, Platforms e Slant Board partono dalla relazione fra corpo e oggetto (rispettivamente una scatola in legno sotto la quale giacciono i ballerini, e una serie di corde poste in cima a una piattaforma inclinata sulle quali si arrampicano gli interpreti) per concentrarsi ancora una volta sul movimento «puro» e sprovvisto di un obiettivo preciso o di uno stile. Se gli oggetti creano un contesto e assegnano un compito ai ballerini, tutto il resto è frutto delle loro scelte (che devono restare libere da qualsiasi intenzionalità estetica o coreografica), della loro sperimentazione, dei loro semplici corpi in movimento.
Una libertà che è il marchio di fabbrica di una piccola grande artista che invece di creare tanti artisti-emuli che danzano «alla maniera di Simone Forti», ha regalato a ogni artista la capacità di affinare le proprie sensazioni interiori utilizzando l’oggetto più prezioso a sua disposizione: il corpo. Una maniera di procedere che dà vita ad un mondo interiore fatto di immagini personali in costante evoluzione. «Permetto ai miei ballerini di stabilire il contatto con le loro proprie immagini, non gli impongo le mie», dice semplicemente Simone Forti.