La bella Deborah è tornata

Il nuovo disco della storica formazione americana conferma come l’attuale revival dell’elettro-pop anni 80-90 sia ormai un fenomeno internazionale
/ 31.07.2017
di Benedicta Froelich

Per quanto non tutti forse apprezzino il profondo alone nostalgico che in questi ultimi tempi ha pervaso il ricordo della musica e cultura popolare degli anni 80, non si può tuttavia negare come la patinata ma, tutto sommato, sincera innocenza degli artisti di allora sembri oggi lontanissima – e, forse per questo, ben più desiderabile. È quindi con una curiosità soffusa della malinconia di ricordi ormai lontani che chi scrive si è predisposto all’ascolto del nuovo, attesissimo album della formazione statunitense dei Blondie, storico gruppo capitanato dalla diafana «post-punk girl» Debbie Harris e responsabile, tra il 1978 e il 1982, di innumerevoli hit da classifica: e dopo un silenzio di ormai tre anni, le aspettative non sono state deluse, poiché questo Pollinator è a tutti gli effetti un vero e proprio «viaggio nel tempo», al punto da risultare quasi anacronistico nel suo proporre sonorità assolutamente datate e reminiscenti del miglior elettro-pop dei tempi andati. L’esempio forse più calzante di ciò è proprio la traccia d’apertura, Doom or Destiny, che, pur non distinguendosi certo per originalità, offre agli appassionati del gruppo un rock carico e suggestivo, aggressivo al punto giusto e talmente fresco da poter apparire come il lavoro di una band emergente di imberbi ventenni; mentre, da parte sua, la traccia successiva, Long Time, costituisce una non troppo velata rievocazione di classici intramontabili dei Blondie quali Heart of Glass.

Il rischio insito in una simile «operazione nostalgia» è, purtroppo, evidente per chiunque sia uso masticare musica dal sapore revival: risulta infatti difficile sfuggire a una certa sensazione di noia, almeno nella prima parte del CD, composta quasi esclusivamente da brani fortemente uptempo e trascinanti come Already Naked e Fun, i quali, per quanto più che gradevoli, alla lunga tendono a confondersi un po’ tra loro. Detto questo, è comunque probabile che i fan più sfegatati della formazione non avranno troppo di che lamentarsi al riguardo, data la semplice e innegabile gioia di aver ritrovato la propria band preferita in perfetta forma: Pollinator è infatti, per molti versi, un CD elettrizzante e molto meno smaliziato di quel che ci si sarebbe potuti aspettare da un gruppo con oltre quarant’anni di storia alle spalle – e che, non a caso, stavolta ha deciso di avvalersi di diversi songwriter esterni.

Ecco quindi che le cose cambiano in meglio con pezzi immaginifici e carichi di tensione narrativa quali My Monster – non a caso composto da Johnny Marr, l’uomo che, insieme all’iroso Morrissey, ha costituito la mente creativa della compianta formazione britannica degli Smiths – e l’intrigante Best Day Ever (cofirmato da Sia), che sembra abbandonare per un attimo i ritmi frenetici delle tracce precedenti per offrire suggestioni più introspettive («se continuiamo a fissarci negli occhi, proveremo meno dolore»). Ma i brani migliori dell’album, in grado di distinguersi marcatamente dal resto della tracklist, sono senz’altro le ballate amare When I Gave Up on You – in bilico tra l’umorismo graffiante a cui la Harris ci ha abituati e la sottile frustrazione di matrice amorosa – e l’ancor più nichilista e dolente Fragments, cover di un pezzo dell’artista indie canadese Adam Johnston, conosciuto con il nome d’arte di «an Unkindness»: una traccia di grande efficacia, che stupisce l’ascoltatore con un attacco lento e riflessivo per poi lasciare spazio a un’esplosione di irresistibile energia. 

Torniamo invece a una certa, più uniforme convenzionalità con pezzi quali Gravity e Too Much, troppo affini ai classici prodotti costruiti a tavolino per compiacere il pubblico dell’easy listening radiofonico – come si evince dal fatto che, al pari della maggior parte della tracklist, anche questi brani sono afflitti da un eccessivo impiego di campionamenti elettronici, filtri vocali e auto-tune. Una nota a parte merita però l’esuberante Love Level, perfetto esempio di hit radiofonica di richiamo, nonché uno dei brani di Pollinator etichettati con la famigerata definizione di «explicit», ormai da anni impiegata per bollare qualsiasi canzone rea di contenere liriche ritenute volgari od offensive. In questo caso, tuttavia, l’unica colpa del pezzo in questione è quella di contenere qualche blando riferimento sessuale; ma ciò che davvero lo distingue dal resto della tracklist è piuttosto il fatto di essere frutto di una collaborazione con il comico e attore John Roberts, i cui scoppiettanti inserti vocali dal sapore vagamente hip hop rendono Love Level uno degli sforzi migliori presenti nel CD. Tutte ragioni per le quali Pollinator può infine definirsi una prova di rinnovato successo per i Blondie, in grado di competere con molto dell’odierno pop-rock di matrice elettronica: una soddisfazione non solo per i fan di vecchia data, ma anche per il pubblico giovanile, che ben farebbe a chiedersi da dove derivino le sonorità tipiche di certe band attualmente sulla cresta dell’onda.