Henri de Toulouse-Lautrec, Au lit, 1892. (Foundation E.G. Bührle Collection, Zürich)

Dove e quando
Il mondo fuggevole di Toulouse-Lautrec. A cura di Daniéle Devynck e Claudia Beltramo Ceppi Zevi. Palazzo Reale, Milano. Fino al 18 febbraio 2018. Catalogo Electa, 36 euro. www.toulouselautrecmilano.it


«Japonisme», manifesti e can can

Henri de Toulouse-Lautrec a Palazzo Reale di Milano
/ 22.01.2018
di Gianluigi Bellei

Henri de Toulouse-Lautrec è un personaggio particolare. Molto amato dal grande pubblico. Forse per la sua fama di artista maledetto, forse per le deformazioni fisiche, forse per le frequentazioni dei cabaret parigini dove si ballava il can can. Un mondo apparentemente dorato che si rispecchiava in personaggi quali Sarah Bernhardt ed Eleonora Duse, fra Moulin Rouge o Moulin de la Galette. Traviata e feuilleton, assenzio e sregolatezza. La verità, magari, è un’altra; fatta di miseria umana, perdizione, prostituzione, malattie, stupri famigliari, accattonaggio. Un ambiente luccicante dietro il quale si nascondevano le più truci vergogne. Le famose «ballerine» non erano altro che carne da macello, femmine perdute; puttane, insomma.

La tragica Goulue (la golosa) ne è il tipico esempio. Nome d’arte di Louise Weber, giovanissima viene stuprata dal padre, poi avviata alla prostituzione. Balla un can can impudico, si fa fotografare nuda, per finire come cameriera in un bordello, grassa e sfatta, e morire abbandonata da tutti in una squallida roulotte nel 1929. Certo, ora pensiamo al Moulin Rouge come a un luogo di lusso, dove i ricchi russi bevono champagne millesimato. Ma era davvero così una volta? Émile Zola scrive di una polvere sottile sollevata dai piedi dei ballerini che saliva lentamente dal pavimento, come una nebbia. «Le fiamme chiare del gas si facevano rossastre come in una nuvola... nel fondo galoppava una ridda spaventosa di creature che non era possibile distinguere, e la furia dei loro gesti sembrava comunicarsi all’aria viziata e nauseabonda...». Ma non c’era solo la Goulue. Altre donne bazzicavano quei luoghi di perdizione come il Moulin Rouge; impudiche, piccanti, sfrontate come Jane Avril, nata Jeanne Beaudon, o la contorsionista Cha-U-Kao, nome d’arte derivato dalla trascrizione dei termini francesi «chahut» sorta di ballo acrobatico tipo can can e «chaos».

Toulouse-Lautrec discende da una famiglia aristocratica, il padre è un conte e i Lautrec possiedono un castello nella valle del Viaur. Un po’ fragilino, magari per i continui matrimoni fra consanguinei, è affetto da un’osteogenesi imperfetta di natura genetica che gli procura diverse fratture in tutti e due i femori. Così malconcio non può certo aspirare a una bellezza aristocratica e si rifugia perciò tra le braccia di «ballerine» e prostitute che ritrae con l’aiuto della macchina fotografica. Muore giovanissimo a trentasette anni dopo una vita, come dire, un tantino borderline. Nella sua carriera realizza circa 500 opere e una trentina di manifesti. Il museo a lui dedicato ad Albi ne possiede circa duecento. Il suo mito cresce in fretta, come quello della Belle époque.

Quando si vuole fare una mostra di successo il suo nome non manca mai, come i soliti Picasso, Van Gogh, Dalí... E infatti basta dare un’occhiata alle varie programmazioni per notare subito come il personaggio sia particolarmente inflazionato. Solo in Italia recentemente si sono tenute mostre su di lui a Roma, Torino, Pisa, Verona, Traversetolo, Tolentino... in questi giorni a Milano a Palazzo Reale.

Da pochi mesi è uscito per i tipi di Einaudi un libro di Tomaso Montanari e Vincenzo Trione intitolato Contro le mostre. Una situazione così, scrivono, si avrebbe analogamente «se tutte le televisioni trasmettessero i medesimi programmi senza mai variare il palinsesto». Nel 2012, per esempio, sono stati dedicati a Picasso 69 mostre e 40 libri. Responsabili di questa deriva, secondo gli autori, sono prima di tutto gli eredi e poi una serie di istituzioni che non fanno il loro dovere, ma offrono gli spazi a società di servizio in «combutta con gli editori», come scriveva Giovanni Agosti nel suo Le rovine di Milano del 2011. Ma ne riparleremo: Picasso approda fra poco anche al LAC di Lugano.

Una di queste istituzioni è sicuramente Palazzo Reale di Milano che demanda l’organizzazione delle esposizioni a terzi. Insomma mostre speculative, organizzate apparentemente per motivi di cassetta, sorrette da editori, galleristi, mercanti. Mario Vargas Llosa ne La civiltà dello spettacolo scrive di un mercato dominato da mafie di galleristi e marchands che non rivela gusto e sensibilità estetiche ma soltanto operazioni pubblicitarie. Nel citato Contro le mostre si stila un decalogo con delle semplici regole da rispettare per realizzare un’esposizione decente. Per brevità diciamo solo che deve essere necessaria e presentare un’idea o una scoperta tali da giustificare lo spostamento delle opere. Se no è meglio visitare un museo, una chiesa, camminare per le città e «scegliere di non entrare, diciamo per un anno almeno, in nessun evento per cui occorra pagare il biglietto».

La mostra di Milano espone 200 opere delle quali 35 sono dipinti e il resto litografie, affiche con tutti e 22 i suoi manifesti. Molte opere provenienti dal Musée Toulouse-Lautrec di Albi, sua città natale e collaboratore dell’esposizione, e da collezioni private. Alla fine nulla di nuovo; il solito repertorio trito e ritrito un po’ pruriginoso fatto di can can, nudi, ballerine: dall’elegante e raffinata Jane Avril, detta Mélinite per la carica esplosiva del suo ballo, con la quale ha una breve relazione, a Kha-U-Kao, fino alla cicciottella e volgare ma molto sensuale Goulue.

Il mondo di Montmartre, il circo, le case chiuse, l’alcol: la depravazione tanto cara alla bohème antiborghese del momento. Interessante il procedimento con il quale realizza i suoi affiche, molto simile a quello che oggi sviluppa con altri mezzi David Hockney. Il capolavoro della sua arte grafica Jane Avril au Jardin de Paris, locale aperto nel 1893, è realizzato basandosi su di una foto pubblicitaria dalla quale l’artista realizza un disegno e a «partire dall’olio su cartone, lo fissa su un foglio più grande», scrive la direttrice del Musée Toulouse-Lautrec Danièle Devynck in catalogo, poi aggiunge la mano di un contrabbassista. Fotografa il risultato e infine sulla foto stende i colori. Il tutto condito con quel po’ di japonisme fluttuante che è tornato tanto di moda oggi.