In Vaticano, come una vertigine

A colloquio con il regista Wim Wenders, che ha impiegato quattro anni per realizzare un documentario sulla carismatica figura di Papa Francesco
/ 01.10.2018
di Blanche Greco

«I miei film non esprimono le mie opinioni. Non avevo opinioni di sorta sui musicisti dell’Avana di Buena Vista Social Club, volevo solo mostrare la bellezza del loro lavoro; come pure di quello di Pina Bausch. M’interessava la bellezza e l’orribile realtà delle fotografie di Sebastião Salgado e nel caso di Papa Francesco, la verità delle sue parole si fa strada da sola, io mi limito a rendergli giustizia, facendo sì che il suo discorso arrivi nel modo più diretto possibile al pubblico».

Ci ha detto Wim Wenders, serio, categorico, nell’intervista che gli abbiamo fatto qualche giorno fa a Roma dove ha presentato, il suo: Papa Francesco – Un Uomo di Parola, un documentario che lo ha impegnato per quasi quattro anni, che è già stato presentato fuori concorso al Festival di Cannes e a quello di Venezia, e che è già uscito in Svizzera, ma che arriva in Italia mentre le vicende del Vaticano, le questioni irrisolte della fronda potente e riottosa della Curia Romana con il Papa, dilagano sui giornali e fanno notizia. Wenders abitualmente così gentile e ironico con i giornalisti, con i quali, di solito, ama conversare e divagare, stavolta è apparso teso e allo stesso tempo voglioso di raccontare quanto questo film-documentario sia stato per lui, intellettuale raffinato, regista famoso solito alle sfide, un vero rebus intimo e personale.

«Se un regista ha per le mani una storia e accanto a sé uno, o più produttori; si deve attenere a dei criteri, a delle linee guida prestabilite, oltre alla volontà di mettersi al servizio della storia e renderla al suo meglio. In questo caso ho ricevuto un invito dal Vaticano con la possibilità di fare un film su Papa Francesco, e, ai miei timori (sono protestante e professionalmente profondamente indipendente), hanno risposto aprendomi gli archivi Vaticani, per consultarli come meglio credessi; mi hanno dato il final cut e nessuna indicazione». Questa enorme apertura e questo silenzio da parte del Vaticano, hanno creato una sorta di vertigine nella quale Wenders per un certo periodo si è dibattuto cercando appigli: come raccontare Papa Francesco? Come aprirgli la strada verso il pubblico? Da dove cominciare? Come riprenderlo in un filmato che non vuole essere un reportage e neppure un film? Sino alla scelta di girare le interviste-incontro con Papa Francesco che guarda il pubblico, occhi negli occhi, «con quello sguardo di chi non ha paura» che ha impressionato Wenders sin dal primo momento, uno sguardo che il film coglie spesso, diretto, intenso anche nelle immagini dei vari filmati dei suoi viaggi.

«Penso che oggi Lui dica ciò che nessun politico si prende la responsabilità di dire, dall’emigrazione al consumismo; dalla povertà all’ecologia; dagli abusi sessuali al futuro della Chiesa; perché Lui guarda all’umanità nel suo insieme, e credo che la sua guerra sia la più importante che si stia combattendo sul pianeta», ha chiosato Wenders, «Non volevo fare un film che esprimesse un’opinione, quindi questo non è un film su Papa Francesco, ma con Lui e non sono io che parlo di Lui, bensì è Lui che si rivolge al pubblico».

Se adesso Wenders dichiara di essere finalmente «in pace con il suo film», arrivare a questo punto non è stato semplice come ci ha raccontato lui stesso: «Papa Francesco quando ci siamo incontrati in una delle prime interviste mi ha detto con sincerità: “Io non conosco i suoi film, ma ho fiducia in lei.” Ma quando alla fine delle riprese mi sono ritrovato con otto ore d’interviste con il Papa, diverse centinaia di ore di materiale girato durante i suoi viaggi in tutto il mondo, il film su San Francesco che avevo girato ad Assisi (importante perché questo è l’unico Papa della Storia della Chiesa ad aver scelto il nome di questo santo riformatore e rivoluzionario), mi sono reso conto che avrei potuto montare almeno cento film. Ma io potevo farne uno solo, e neppure molto lungo, appena di un’ora e mezzo. A quel punto ho dovuto fermarmi, e ci ho messo un bel po’ prima di trovare la forma più giusta, per un film in cui Papa Francesco potesse raccontare tutto ciò che gli stava a cuore. Un flusso di pensieri e di parole senza ripetizioni e senza barriere».

Un flusso accompagnato dalle musiche di Laurent Petitgand, dalla voce della cantante argentina Mercedes Sosa e che finisce con una canzone di Patti Smith «perché volevo la voce di una donna dopo tante voci maschili e Patti Smith aveva suonato per il Papa, anzi c’era una storia che, nella mia testa la legava a lui», ci ha raccontato Wim Wenders abbozzando un sorriso, «Patti Smith era stata ad Assisi nel 2012, ospite dello stesso monastero in cui sono stato io, mentre giravo il film su San Francesco. L’occasione era stata una conferenza per la pace e lei aveva dato un concerto e aveva parlato con i frati, e, durante una cena con loro, una sera, gli aveva detto: “Voi non ve lo aspettate, ma il prossimo Papa si chiamerà Francesco.” Tutti avevano riso e avevano brindato alle gentili sciocchezze di una cantante americana che non sapeva che un Papa che assumesse quel nome era un evento impossibile. Mi sono ricordato di questa storia, che lei stessa mi aveva raccontato, e le ho chiesto di essere nel film con una canzone».