L’ebreo Max Blecher visse l’esilio nel proprio corpo. Come il protagonista del famoso racconto di Franz Kafka, La metamorfosi, anche lui si ritrovò d’improvviso con un’altra identità fisica. Nato in una famiglia della piccola borghesia di provincia a Botoşani, nel nord della Romania nel 1909, non aveva ancora vent’anni quando a Parigi, dov’era andato per studiare medicina, gli diagnosticarono una tubercolosi spinale che lo costrinse a letto in una sorta di corazza di gesso. Dieci lunghi anni trascorsi in vari sanatori in Francia, Svizzera e sul Mar Nero fino alla morte nel 1939.
La malattia non gli lasciò scampo, ma egli tentò di esorcizzarla con la scrittura: nacquero in quegli anni di dolore ben tre romanzi, un libro di poesie, articoli e saggi. Il suo nome si affermò sulla scena letteraria, da cui lo cancellarono prima il nazismo e poi il comunismo. Recensendo il suo primo romanzo del 1936, Accadimenti nell’irrealtà immediata (Keller 2012) il drammaturgo Ionesco lo definì «un Kafka romeno», mentre intellettuali di rilievo come Breton e Gide ebbero con lui non pochi contatti epistolari.
Blecher aveva un debole per il surrealismo, rifiutava l’aspetto comune delle cose, il suo sguardo si avventurava volentieri oltre la superficie uniforme della realtà nella vita autentica del sogno. Il giovane protagonista di Accadimenti avverte un costante senso di separatezza dal mondo mentre la sua stessa identità sembra vivere in un corpo del tutto nuovo con una pelle e degli organi sconosciuti. Non si scende ancora negli abissi della malattia in questa singolare ricognizione degli anni dell’adolescenza. La fantasia dello scrittore insegue piuttosto visioni improbabili, cade in deliquii piacevoli ed esaltanti, sperimenta con l’amico Ozy Weber un gioco di dialoghi immaginari e s’entusiasma per i personaggi del museo delle cere che egli vede come autentiche icone della realtà perché nella loro artificiale inerzia non falsificano la vita in modo ostentato. Fra le molte bizzarrie fa capolino la scoperta della sessualità in un’altalena di impulsi e tensioni che investono la sua stessa percezione del mondo tanto da far dire alla conterranea Herta Müller, premio Nobel per la letteratura: «Ciò che rende lo sguardo di Blecher così penetrante è l’eroticità che risiede e langue in ogni cosa».
È stato detto che la prosa di Blecher ricorda autori come Bruno Schulz e Robert Walser, mentre il suo secondo romanzo pubblicato nel 1938, Cuori cicatrizzati, che ora l’editore Keller propone nella versione di Bruno Mazzoni, ci riporta tematicamente al capolavoro di Thomas Mann, La montagna incantata del 1924. Ma esso in realtà è del tutto estraneo al testamento di un grande intellettuale come lo scrittore di Lubecca che delineava attraverso le esperienze del giovane ingegnere Hans Castorp nel sanatorio di Davos la mappa di un’intera civiltà fagocitata dalla follia e dall’istinto di morte.
L’orizzonte del protagonista di Blecher, lo studente di chimica Emanuel affetto da tubercolosi ossea, è invece circoscritto alla propria dimensione fisica. Da quando vive al sanatorio di Berck, una piccola località francese sul mare del Nord, il mondo gli sembra stranamente assottigliato e il suo stesso fisico gli appare come «una massa di carne e ossa tenute insieme dalla rigidità di un contorno». Del resto intorno a sé lo spettacolo è allucinante: corpi distesi su barelle doccia, incapsulati nel gesso, persone vive eppure morte, «intorpidite in posture rigide, sdraiate e mummificate».
C’è anche chi cammina come il signor Quitonce, specializzato fin da piccolo in cliniche, con due bastoni e scalcia ad ogni passo offrendo uno spettacolo curioso e un po’ farsesco. Al contrario, il paziente Zeta è un vero «trito di carne»: ha i piedi dentro un blocco di gesso mentre alcune parti delle dita e della pelle sono tenuti insieme con dei punti d’argento. Per non parlare di Roger e Cora che tentano di flirtare su due barelle doccia affiancate o della nuova arrivata, la signora Isa, a cui Emanuel si sente legato da sincera amicizia. Peccato che anche lei sia destinata a soccombere dopo l’amputazione di una gamba. Ma anche coloro che sono riusciti a sconfiggere la malattia, come il giovane Ernest o l’argentino Tonio che smania per una paziente polacca, la signora Wandeska, non sanno rinunciare a quel lazzaretto: il mondo dei sani sembra irraggiungibile perché gli anni di sanatorio sono un veleno insidioso che entra nel sangue e chi vi ha vissuto «non si ritrova da nessuna altra parte».
Blecher porta alle estreme conseguenze la sua immagine del mondo nutrita di pura fisicità e catapultata nel paradosso: far vivere chi è già spiritualmente morto, inseguendo la disperazione come una sorta di passatempo quotidiano. Anche Emanuel viene ingessato, eppure cerca ancora sempre un alito di vita, magari nella giovane e graziosa Solange, scampata alla malattia, che lo segue con affetto, mentre lui abbozza inutilmente gesti d’amore, fisici conati che degenerano in un «simulacro pietoso». Non bastano a rasserenarlo le gite in calesse al mare o nelle taverne della zona: ormai la vita libera e spensierata è fuggita via per sempre, soffocata nella sua armatura di gesso.
L’esistenza appare fra le pagine di Becher come una sorta di purgatorio popolato da fantasmi e parvenze che si aggirano nell’irrealtà più assoluta. Eppure lo scrittore non si arrende: gentilezza, amore, amicizia sopravvivono anche a Berck, dove sembra essersi accumulato tutto il dolore del mondo. Ma alla fine è inevitabile lo sconforto per la lontananza degli amici guariti o la morte di alcuni compagni morti in quei pochi mesi. A Emanuel resta solo, in un tempo senza futuro, l’addio e la gioia di un fuggevole bacio di Solange prima di allontanarsi per sempre da quel luogo di disperazione e di affetti svaniti.
Bibliografia
Max Blecher, Cuori cicatrizzati, traduzione di Bruno Mazzoni, Keller editore, Rovereto, p. 237, € 15,50.