La passeggiata che dalle Zattere arriva fino a Punta della Dogana, affacciata sul Canale della Giudecca, ogni volta ti convince che Venezia rimane davvero un luogo fuori dalle geografie e dallo scorrere del tempo. In questi giorni, fino al 30 aprile, proprio qui si aggiunge anche una presenza speciale. Si tratta dell’artista Pierre Casè che, con premura e cortesia, accoglie il visitatore che giunge alla sua mostra, ospitata in uno dei grandi saloni ai Magazzini del Sale.
Nato a Locarno nel 1944 e oggi residente a Maggia, Casè è un esempio significativo di un diverso modo di fare arte, dato che, oltre al proprio percorso creativo, ha saputo dedicarsi anche alla promozione della ricerca di altri artisti: è successo negli anni Novanta, quando dirigeva la pinacoteca di Casa Rusca, ma anche nell’ambito del lavoro svolto per le fondazioni Gottfried Keller, Arp e Segantini. A Venezia, invece, dove espone per la terza volta, egli torna a sviluppare le proprie opere in modo tale da richiamarci a una riflessione profonda sul nostro territorio. Come lo abbiamo trasformato? Lo stiamo vivendo in maniera giudiziosa? Offriamo il rispetto dovuto alle terre che ci hanno ospitato e sfamato attraverso i secoli?
Cardine di questo ragionamento sono gli animali – da qui il titolo dell’esposizione Il bestiario – che, vivendo in simbiosi con l’uomo, gli hanno sempre garantito la sopravvivenza. Oggi il trattamento che viene spesso riservato alle «bestie» non rende giustizia a questo loro ruolo. L’artista ci introduce alle opere ripercorrendo i pensieri e le notizie che le hanno ispirate: racconta della «moda» odierna di impedire la crescita delle corna ai vitelli, per renderli innocui negli spazi sempre più ridotti in cui sono costretti a vivere, o della difficoltà di portare avanti la consuetudine della transumanza da valle fino agli alpeggi, poiché le mucche vengono selezionate per produrre sempre più latte, a scapito della loro resistenza fisica. Da questi e altri esempi il tema appare chiaro: l’artista sta considerando le alterazioni della natura, stravolta dall’uomo, e le sue opere esprimono senza reticenze questo sconvolgimento.
I materiali che egli usa sono prevalentemente di riutilizzo e sono stati scelti proprio a richiamo di quel contesto contadino che ha caratterizzato aree come il Canton Ticino. Il supporto è costituito da lamiere di ferro, quelle stesse lamiere rimaste ad ossidarsi alla pioggia, che Casè ricorda impiegate per costruire alla bell’e meglio ripari per polli e galline. Su queste scorrono segmenti di filo spinato: «Per me è l’emblema della nostra società. Qualcosa che fa male, che urta e ferisce» dice Pierre Casè. Trattenuti da questi, come imprigionati, appaiono gli animali: sono silhouettes ritagliate nel ferro, ma soprattutto teschi di capre, pecore, volpi, gatti, tassi, mucche, ridotti alle sole ossa bianche, che risaltano sulla superficie bruna. Non sempre gli animali sono figure benevole: «Ricordo una sera di quando ero bambino, avrò avuto sei anni: mio nonno scendendo nella vigna si accorse che il tasso aveva mangiato tutti i grappoli maturi e avrebbe voluto solo farlo fuori». Ma, nonostante questo rapporto alterno fra conflitto e dipendenza, erano pur sempre presenze familiari nel «bestiario alpestre» delle valli ticinesi e oggi sembrano quasi scomparse, in un territorio che forse ha voluto dimenticare troppo in fretta la propria storia rurale.
L’allestimento realizzato con impalcature da cantiere e tavole per ponteggio è scelto per non nascondere, ma anzi per svelare la struttura materica delle opere. Il grande libro di poesie che il visitatore può sfogliare, poi, è un omaggio al fratello dell’artista, Angelo Casè, scomparso nel 2005: anche nelle sue poesie gli animali sono una presenza consueta, che ritorna di frequente, così come ne I compagni morti: «La terra è una grande volpe distesa e accaldata – sarà il disagio dell’ora che fugge, la sua tristezza che non riusciamo a dire, il silenzio che ci parla duramente di uno sparo – ma dove?».
Presentare questa riflessione proprio a Venezia è una scelta insolita: il connubio fra la città e il mondo animale può apparire poco pertinente, ma l’interessante saggio in catalogo (Il bestiario, Fidia edizioni d’arte, Lugano, 2017) di Alberto Tosio Fei racconta invece come la storia della città sia ricca di bestie leggendarie e reali. Per chi, dopo aver visitato la mostra, ha voglia di andare per musei, quello di scienze naturali al Fondaco dei Turchi, rinnovato completamente nel 2011, è uno splendido modo per completare l’esperienza proposta da Casè. E, d’altra parte, come dice il titolo di un bel libro di Tiziano Scarpa dedicato alla città lagunare, Venezia è un pesce.