Guardando le sue opere si può intuire con chiarezza il lungo rituale che Wolfgang Laib intraprende per la preparazione dei materiali: il polline che viene raccolto, mondato, filtrato e poi accumulato con estrema cura, ad esempio, o la cera d’api, che viene radunata, sciolta e purificata con pazienza. È un’attività lenta e quotidiana che coinvolge la mente e il fisico e che per l’artista tedesco non è finalizzata solo a predisporre gli elementi con cui dar vita ai propri lavori ma diventa la loro vera essenza, parte integrante del significato che racchiudono.
Con questi materiali e con ossequioso rispetto nei loro confronti, Laib si appresta poi a dare forma concreta alle sue visioni, in un processo creativo che mantiene ancora il carattere di una liturgia solenne: il polline che viene disposto con amorevole dedizione in ordinate composizioni, la cera vergine che viene plasmata con garbo, i chicchi di riso che vengono fatti scivolare con delicatezza dalle mani, il marmo che viene levigato dolcemente. Sa di terapia questo cerimoniale, di atto espiatorio, con l’artista che diviene uno strumento attraverso cui la natura si esprime.
Nella mostra allestita al Museo d’arte della Svizzera italiana a Lugano il meticoloso lavoro di Laib si dispiega tra le sale, impregnandole dei profumi del creato e immergendole in un’atmosfera meditativa che induce il visitatore al silenzio e alla contemplazione. Osservando le opere esposte ci si accorge come quelle che l’artista utilizza siano sostanze vive, particelle di un mondo naturale che portano con sé il senso primigenio dell’universo e che sanno evocare con semplicità e profondità l’idea di rigenerazione, di nutrimento e di legame tra cielo e terra.
Non va molto lontano Laib a cercarle, le trova nei paraggi della sua abitazione immersa nelle foreste della Germania del Sud, dove vive seguendo i placidi ritmi della natura. Come il polline di nocciolo, di tarassaco, di pino o di ontano, raccolto puntualmente ogni primavera da quando, negli anni Settanta, decide di diventare artista dopo aver terminato gli studi di medicina, scienza da lui considerata troppo poco vicina all’interiorità dell’individuo.
La consapevolezza di poter giungere solo con l’arte a esplorare lo spazio intimo dell’uomo porta Laib a un approccio quasi mistico all’esecuzione dell’opera e a privilegiare elementi naturali e strutture archetipiche che raccontano con spontaneità la bellezza dell’universo. Nelle sue mani la materia rimane quella che è, non viene trasformata ma unicamente impiegata in maniera diversa affinché se ne possa cogliere la vera sostanza. Con modestia e autenticità, Laib si sente più un tramite che un creatore. Senza alcuna presunzione egli fa di questi frammenti del reale una forma di sostentamento per l’anima.
Non è difficile scorgere nei lavori dell’artista una percezione del mondo distante dalla contingenza e dall’utilitarismo, un’attitudine a coltivare lo spirito. Laib riesce a fondere la conoscenza delle culture e delle religioni orientali con la riflessione sulle radici dell’Occidente, avvalendosi di un linguaggio immediato che sa rielaborare in chiave moderna gli insegnamenti tratti dalle filosofie buddiste e giainiste.
Quella di Laib è una poetica che stimola prima di tutto la sensazione, e lo fa con opere che evocano l’aspetto incontaminato dell’esistenza inneggiando alla purezza e all’equilibrio che regolano il mondo. Essenziali e simbolici, sono lavori che portano con sé l’universalità di un messaggio che parla di temi eterni, come la vita e la morte, del desiderio di purificarsi e di rinascere, della seduzione ancestrale del creato.
La rassegna luganese dedicata all’artista presenta oltre cinquanta realizzazioni tra sculture, installazioni, disegni e fotografie. Proprio con queste ultime si apre il percorso espositivo, rimarcando quanto per Laib il viaggiare per il mondo, in particolare nel continente asiatico, e l’entrare in stretto contatto con il pensiero di altri popoli sia stato fondamentale per aprire la sua mente a concetti profondi, poi tradotti nel repertorio di forme primarie e ascetiche delle sue opere.
Mescolando le intenzioni della Land Art con i principi dell’astrazione minimalista, senza nascondere l’ammirazione per l’artista tedesco Joseph Beuys con cui si sente affine nella scelta dei materiali così come nel credere nel potere catartico dell’arte, Laib crea lavori che si allontanano da una visione antropocentrica per porre umilmente gli elementi naturali quale fulcro di tutto.
Ne è un esempio la grande struttura intitolata Es gibt keinen Anfang und kein Ende, del 1999, una ziggurat in legno e cera d’api alta oltre sei metri che ricorda nella forma le antiche torri templari sumere, costruzioni che rappresentavano la volontà dell’uomo di avvicinarsi sempre di più al cielo.
In mostra troviamo poi le Rice Houses, casette marmoree dalle volumetrie arcaiche attorno a cui l’artista ha collocato piccoli cumuli di riso, e la celebre serie dei Rice Meals, dove i chicchi sono posti all’interno di piattini di ottone indiani. Significativa del percorso artistico di Laib è anche l’opera Milkstone, la prima delle quali viene realizzata nel 1975, costituita da una lastra di marmo bianco su cui è stata ottenuta un’impercettibile incavatura riempita con del latte. In essa Laib accosta in maniera inaspettata due materiali in netto contrasto tra loro riuscendo a fonderli in una composizione dal bianco scintillante.
Lavoro cardine dell’esposizione, soprattutto per l’impatto visivo, è il grande campo di polline di pino che Laib ha allestito in una delle sale del museo: nelle mani dell’artista questa sostanza evanescente e incorporea sembra diventare colore vero e proprio, di una luminosità quasi abbagliante. È il modo dell’artista di meditare sulla vulnerabilità del creato e sulla fragilità dell’esistenza, con la consapevolezza che solo un ritorno agli impulsi dell’anima può ricongiungere l’uomo all’armonia dell’universo e farne suo devoto custode.