*** Lucky, di John Carroll Lynch, con Harry Dean Stanton, David Lynch (Stati Unit i, 2017)
Avrebbe meritato l’oro all’ultimo Festival di Locarno al posto del sensibile ma clamorosamente elitistico Mrs. Fang di Wang Bing. Lucky è pure a suo modo un film piccolo; non è però solo toccante, ma universale e prezioso. Non fosse che per costruirsi grazie ad una estetica più che coerente, sulla presenza di personalità non indifferenti.La prima è quella della ragione d’essere dell’operazione, Harry Dean Stanton. Straordinaria icona del cinema moderno, scomparsa poche settimane dopo la proiezione locarnese, presenza indimenticabile in Paris, Texas di Wenders, Il padrino di Coppola, Cuore selvaggio, Twin Peaks o Una storia vera di David Lynch, per non citare che pochi frammenti di una filmografia imponente. Lucky è allora solo in apparenza la ricreazione di un mito ben noto come quello del western, fatta di distese polverose, cactus e saloons. Ma è il profilo accurato e commovente, anche se pacato e quasi noncurante, di un’icona che si è nutrita di quell’America. Stanton «è» Lucky, un novantenne ritiratosi in una cittadina solitaria, con il deserto attorno: silenzioso e un po’ melanconico, ma mai privo di un humour tutto suo, con le sue giornate a colpi di sigarette, quiz televisivi e serate al pub. Un quotidiano normale di un vecchietto che non è mai banale, ricalcato su una memoria mitica, cinematografica, alla quale ad ogni istante ci rimanda.
*** Victoria e Abdul, di Stephen Frears, con Judi Dench, Ali Fazal, Eddie Izzard (Gran Bretagna 2017)
Il ritratto di una regina, l’affresco di una corte non costituiscono per Stephen Frears una novità; tutti ricorderanno l’immenso successo, di pubblico e di critica di The Queen. Il regista britannico è un autore che ha alternato opere memorabili (My Beautiful Laundrette, Le relazioni pericolose, Mary Reilly, il piccolo, miracoloso The Snapper, Cheri, ) ad altre sempre d’impeccabile qualità e professionalità. Ventiduesimo lungometraggio di una carriera, Vittoria e Abdul è da collocare fra queste: uno di quei ritratti scavati che Frears predilige da sempre, con l’individuo prigioniero del formalismo, condizionato dalla sua impossibilità di voler bene. Dietro l’estrema brillantezza della regia non c’è più la rabbia: ma una satira del colonialismo intrisa, di sarcasmo, velata da un legittimo sentimentalismo che va imponendosi nella filmografia più recente del settantaseienne cineasta.