«Adoro i film dei Fratelli Marx. Come attore sono diventato talmente impaziente che mi trovo bene solo quando posso stare dietro alla macchina da presa, infatti come regista sono sempre in movimento e nei miei film c’è sempre azione! Fare l’attore mi consente di dar da mangiare ai miei cinque figli e di coltivare le mie passioni, l’arte e la cucina, che mantengo grazie all’attività di regista». Ha esordito così, con l’ironia che gli è congeniale l’attore americano Stanley Tucci, dalla filmografia sconfinata, incontrato a Roma per la pres
«Alberto Giacometti è un artista che mi ha profondamente toccato, lo amo da quando ero ragazzo, e fare un film su di lui è un progetto che ho portato avanti con tenacia, contro tutte le difficoltà. Un vero film, non una biografia, che diventa sempre una noiosa enumerazione di fatti, di luoghi e di personaggi; volevo realizzare qualcosa di vivace, che ne evocasse lo spirito, oltre alle qualità artistiche, l’umanità e la bizzarria, oltre al grande talento. Per questo mi sono concentrato sull’episodio che James Lord narra nel suo libro: A Giacometti Portrait, quando, a Parigi, lusingato dalla richiesta dell’artista di posare per lui per un ritratto, ne divenne, suo malgrado, prigioniero per diciotto giorni».
È il 1964 quando James Lord, giovane scrittore e critico d’arte americano in procinto di lasciare Parigi, dove ha vissuto per un certo periodo, accetta di fare il modello per Alberto Giacometti, in quegli anni all’apice della fama e con il quale ha stabilito un rapporto di reciproca simpatia e amicizia. Lord è preoccupato perché fra tre giorni ha il volo con il quale rientra definitivamente a New York, ma Giacometti invitandolo nel suo studio, è categorico, sarà questione di poche ore. Ma quando il mattino dopo James, spinge il cancello del caotico atelier-casa dei Giacometti, Alberto sembra dedicarglisi quasi controvoglia, mentre fanno la loro apparizione i vari personaggi della sua vita quotidiana: il fratello Diego, anche lui artista e suo angelo custode discreto; la moglie Annette, elemento fondamentale della sua vita e l’amante Caroline, una ragazza di vita, per la quale l’artista nutre una passione ossessiva, che gli è necessaria come l’aria che respira. Le pose vengono interrotte dalle passeggiate, dagli intervalli al ristorante e dai momenti di riflessione, ma non bastano a tenere a bada i dubbi dell’artista, il suo perfezionismo, la delusione, l’incertezza. Così il ritratto si forma sulla tela e via via si precisa e si distorce, in un duello continuo dove Giacometti è impegnato con i suoi pennelli, in un corpo a corpo con la forma e l’idea, sempre indeciso tra ciò che vede lui e la realtà, incapace di dare il tocco finale all’opera e riluttante a lasciare andare il suo modello, tanto che preferisce ogni volta cancellare e ricominciare tutto daccapo.
James Lord, quando non è con Giacometti, è al telefono, sempre più in difficoltà a spiegare a chi lo attende in America la situazione che lo trattiene a Parigi, e che sembra non avere una via d’uscita. Ormai non è più questione di un quadro, ma di amicizia. «Quello che mi ha conquistato nel libro e in questo episodio», ci rivela Stanley Tucci, «è il gusto di un’epoca; lo spaccato del carattere di Giacometti, il suo modo di essere famoso, di vivere e d’intendere il successo e l’arte. Ci fornisce tutta una serie di dettagli che ci permettono di entrare in profonda sintonia con il personaggio e la sua umanità, che lo rendono così speciale e allo stesso tempo universale, ma riescono anche a far emergere il groviglio di sentimenti in cui rimane “impigliato” James Lord, suo malgrado, prigioniero, affascinato e riluttante di Giacometti».
Ironico, a tratti buffo, ma anche drammatico, Final Portrait. L’arte di essere amici è un film equilibrato, spiritoso, ma soprattutto pieno di spunti sul tormento dell’artista, ma anche di tenerezza, grazie alla sapiente interpretazione di Geoffrey Rush, così somigliante a Giacometti (con l’aiuto di lunghe sessioni di maquillage), e di Armie Hammer, che è più bello del vero James Lord, ma come sottolinea Stanley Tucci: «Molto eloquente nei progressivi cambiamenti di umore: disperato per i giorni che si trascinano inutilmente, sino a quando ormai nel panico, ha la geniale trovata finale. È stato faticoso, ma sono felice di essere riuscito a rendere la sincerità di questo rapporto, che alla fine si rovescia ed è il “modello” ad osservare l’artista e, a modo suo, a salvare quello che sarà il suo ultimo ritratto».
Nel film e nel personaggio di Giacometti c’è molta ricerca, ma anche un po’ del passato di Stanley Tucci: «Nel mio Giacometti non c’è solo il pittore e lo scultore che ha realizzato opere senza tempo, che secondo me più di ogni altro artista contemporaneo ha saputo esprimere nelle sue raffigurazioni la condizione umana, ma ci sono anche i ricordi che ho di mio padre, un artista-artigiano molto conosciuto e anche un insegnante di storia dell’arte. Con lui ho visitato tutta l’Italia, abbiamo vissuto un anno a Firenze e da lui ho imparato molto. Mi piaceva guardarlo lavorare e l’ho spiato per ore e ore. Dal lui ho ereditato il talento e come lui, avrei voluto fare il pittore e lo faccio anche, ma questa è ancora un’altra storia».