«Sono proprio i macchiaioli la prima vera avanguardia della storia dell’arte, artisti che incominciano a chiamarsi fuori dalla società d’appartenenza per autoverificarsi. La storia però non ha reso giustizia a questo movimento, e quando se ne parla oggi, non sembra essere più che una curiosità etnica». Il giudizio è di Philippe Daverio, critico e bravo divulgatore (le due cose non sempre coincidono), e si ritrova nel catalogo della mostra L’Ottocento aperto al mondo, in corso al Centro Matteucci di Viareggio.
Una sede ideale, non soltanto dal profilo logistico, in una palazzina liberty, già di per sé evocativa, ma soprattutto per il ruolo svolto dall’omonima Fondazione per l’arte moderna: che sta concentrando l’attenzione su un periodo, trascurato o frainteso dalla critica e dal pubblico qual è l’Ottocento italiano. Di cui i macchiaioli rappresentarono un’avanguardia, ancora da valutare in tutta la sua portata innovativa. Era nata, a partire dal 1855, ai tavoli del Caffè Michelangelo di Firenze, dove un gruppo di artisti (Fattori, Signorini, Lega, i più noti), teorizzava e poi sperimentava una pittura liberata dagli accademismi, da praticare all’aria aperta, a contatto con la natura e la quotidianità della gente. Erano le rivendicazioni e gli obiettivi che, nel successivo decennio, dovevano animare le discussioni, ai tavoli del Café de la Nouvelle Athène, a Parigi, fra Manet, Pissarro, Degas, Renoir, future grandi firme dell’impressionismo, movimento destinato a un successo di respiro mondiale.
Sono due mondi che sembrano lontani e non paragonabili: una provincia isolata e silenziosa, in un’Italia nazione ancora in fieri, e una capitale cosmopolita e sfolgorante. Ma li avvicinava la condivisa percezione di un cambiamento che era nell’aria: alle soglie della modernità, l’arte stava inventando nuovi linguaggi. Macchiaioli e impressionisti ne diventarono gli anticipatori. Con ciò qual è stato veramente il rapporto fra loro? La mostra risponde all’interrogativo già dal titolo. L’Ottocento aperto al mondo si riferisce all’esperienza vissuta da artisti italiani che, sia operando in patria, sia emigrando a Parigi, furono in grado d’interpretare, con risultati di alto rilievo, i fermenti creativi dell’epoca.
Non si tratta, insomma, di stabilire, se e quanto, i macchiaioli approfittarono della lezione impressionista, ne furono insomma dipendenti. Quel che conta è constatare l’autenticità della loro ispirazione e l’efficacia della loro pennellata, attraverso le testimonianze di dipinti rivelatori. Che, non di rado, diventano, per il visitatore, motivo di sorpresa e riflessione. Come accade di fronte a L’uncinetto (1885) di Telemaco Signorini. La sua non è soltanto «una perfetta combinazione di paesaggio e figura», ma, come scriverà negli anni 20 il critico Enrico Somarè, l’artista porta sulla tela «un’immagine mentale», un’astrazione. Anticipando i tempi.
Altri, invece, i cosiddetti «Parisiens d’Italie», riuscirono a lasciare il segno proprio sul terreno, in quel momento, più affollato, ostico e autorevole. Il successo a Parigi equivaleva a una conferma di talento. Basti pensare a Giovanni Boldini, ritrattista di celebrità e «grandes dames». Ma nella capitale si affermò anche Giuseppe De Nittis, partito da Barletta «con poche lire e qualche tubetto di colore (...) insegnò agli inglesi a veder le loro nebbie e ai francesi a veder le loro donne». Al di là di questo giudizio, viziato da un eccesso nazionalista, De Nittis appare una figura dominante in questa rassegna. Non a caso, il suo Al Bois de Boulogne ne è l’icona pubblicitaria, proposta sul manifesto e sulla copertina del catalogo. In realtà, però, la rivelazione è il veneziano Federico Zandomeneghi, Zandò, che s’impara a conoscere, attraverso ben sedici pezzi che illustrano con vivacità momenti di vita pubblica, e, con delicatezza, momenti d’intimità quotidiana.
Ma, a sua volta, questa mostra ha, alle spalle, una bella storia da raccontare. Ed è quella del lavoro, della passione, dell’intuito di due collezionisti cui si deve lo straordinario allineamento di opere tanto significative, godibili e utili sul piano della storiografia. Si tratta del livornese Mario Borgiotti (1906-1977) e del milanese Enrico Piceni (1901-1986): personalità diverse, per nascita, ambiente e attività, ma unite dalla curiosità e dalla capacità di percepire, nel mare della produzione artistica, le cose da salvare. In grado di testimoniare il clima culturale di un’epoca. Borgiotti, lui stesso pittore, si mosse nell’ambito dei macchiaioli, contribuendo alla loro identificazione e valorizzazione. Mentre Piceni, figura multiforme, impegnato nell’editoria, traduttore fra altro di Dickens e Agata Christie, rivolse l’attenzione di collezionista ai «Parisiens d’Italie» e fu una presenza di spicco nella grande stagione milanese del secondo dopoguerra. Insomma, la mostra conferma quanto siano intrecciati e pieni di sorprese i percorsi della creatività.