Per quanto riflessioni del genere possano rievocare le varie «frasi fatte» con le quali persone non più giovanissime amano denigrare il presente tramite paragoni con un passato sovente idealizzato, chiunque sia avvezzo a scrivere recensioni musicali con una certa regolarità non può comunque negare la veridicità di un semplice concetto: ovvero che oggi, nell’arco di un intero anno di ascolti discografici nell’ambito pop-rock, il numero degli album che restano davvero impressi nella mente (e nel cuore) dell’ascoltatore si può contare sulle dita di una mano. È quindi sempre una gioia incappare in un esempio di cantautorato americano emotivamente ricco e palpitante come quello offerto da un lavoro quale Mental Illness, ultimo sforzo della 56enne virginiana Aimee Mann; e del resto, la sua autrice si è sempre distinta per la coerenza artistica che, fin dagli esordi – avvenuti negli anni ’80 come cantante della band new wave dei ‘Til Tuesday le ha consentito di mantenere un profilo qualitativo molto alto, permettendole di dipingere con mano sicura e grande acume la propria personale visione degli sconvolgimenti emotivi insiti nella contraddittoria condizione umana.
Questo nuovo lavoro non fa eccezione, dal momento che, fin dal titolo, l’album si presenta come un’amara riflessione sulle sofferenze alle quali qualsiasi anima anche solo minimamente sensibile va incontro nell’arco del proprio tormentato percorso esistenziale; un approccio che si riflette anche nella connotazione musicale del disco, quasi esclusivamente a base di arrangiamenti acustici, in marcato contrasto con il precedente lavoro dell’artista, il rockeggiante Charmer (2012). Non è un caso che la stessa Aimee abbia definito Mental Illness «il mio album più triste e lento», e d’altronde il sapore folk che lo pervade dalla prima all’ultima traccia certo contribuisce non poco al carattere intimista e introspettivo del CD, a tratti caratterizzato da atmosfere ipnotiche e quasi ossessive, tali da spingere l’ascoltatore a perdersi nei meandri della malinconica concezione del mondo offerta dall’autrice. Da parte sua, anche l’irresistibile copertina pittorica, realizzata da Andrea Dozno, asseconda tale impressione, offrendoci un’arguta allusione a uno strano «mostro» peloso, curiosamente sorridente – il quale potrebbe rappresentare la terribile e falsamente confortante familiarità della malattia mentale citata nel titolo, così come l’innocua rassegnazione di un qualsiasi outsider, o «diverso».
Il senso di estraneità che tutto ciò sembra trasmettere si palesa così fin dalla traccia d’apertura del CD, l’aggraziata Goose Snow Cone, ermetica riflessione sulla solitudine e l’isolamento interiore; e l’intera tracklist dell’album si sviluppa su sentimenti affini, passando dalle dolorose prese di coscienza descritte in pezzi quali gli amari You Never Loved Me e Simple Fix al totale disincanto del brano di chiusura, Poor Judge. Certo, bisogna dire che, dal punto di vista compositivo e interpretativo, non tutte le tracce dell’album sono sostenute da egual forza; tuttavia, nonostante la sottile debolezza di alcune soluzioni melodiche o ritmiche, il pathos che Aimee mette in ogni singolo pezzo è sufficiente a conferire al lavoro un’intensità in grado di travalicare qualsiasi apparente mancanza tecnica – come si avverte in brani musicalmente non troppo originali, eppure assai vibranti, quali lo struggente Stuck in the Past («avevo delle speranze, ma questo solo perché / la speranza era il pozzo presso il quale tu ti trovavi»), e l’altrettanto bruciante Philly Sinks, parabola sulla disillusione che inevitabilmente accompagna i nostri maldestri tentativi di ignorare la realtà qualora questa si riveli troppo dolorosa.
In tal senso, l’album si basa interamente su narrazioni di questo tipo, ovvero caratterizzate da un carattere inquieto e disilluso: un esempio perfetto ne è Lies of Summer, in cui un paio di versi bastano a riassumere quello che è da sempre l’orrore dell’establishment psichiatrico – «perché una volta che ti infilano una camicia da notte di carta / di te non rimane alcuna traccia, come se non ci fossi mai stato» – mentre l’ironico e ammiccante Patient Zero (e, su un piano più lieve, il cadenzato Knock It Off) costituiscono un’eccezione, trattandosi di brani ritmati dalle sfumature pop più «leggere» e spensierate. Ma ciò che permane lungo tutto il disco è anche l’eccellenza delle liriche, che regalano momenti intriganti e toccanti nella loro allusiva semplicità, fatta di frasi brevi e concise, ma sempre fortemente evocative: ciò fa sì che, seppur Mental Illness non possa probabilmente definirsi un capolavoro a tutto tondo, la sua coerenza e potenza emotiva lo rendano una fatica artistica di grande vigore e, soprattutto, dall’eccelsa sincerità compositiva – lo sforzo di un’artista matura e da sempre lontana dalle facili lusinghe commerciali, che ha ancora molto da dire e da offrire al suo pubblico, in barba a ogni convenzione di stampo radiofonico o promozionale.