Dove e quando 
Milano, Piccolo Teatro Strehler, fino al 12 febbraio.


Il Pinocchio di Latella, pretenzioso e confuso

Una riscrittura a sei mani del capolavoro di Collodi
/ 30.01.2017
di Giovanni Fattorini

Nella sua introduzione a Le avventure di Pinocchio (BUR, 1976), Pietro Citati scrive: «Possiamo leggere Pinocchio sia come una crudele storia realistica, sia come una storia esoterica». Personalmente sono propenso a leggerla come una storia realistica, e condivido appieno le considerazioni con cui Citati sigilla, in quell’introduzione, il nitido ritrattino di Collodi: «Nessun libro è più toscano del suo. La conoscenza amara, crudele e senza luce della realtà, la riduzione di ogni fantasia, di ogni sogno, di ogni favola, di ogni desiderio infantile, di ogni mostro leggendario entro limiti più famigliari (solo Collodi poteva entrare nel ventre di una balena per ritrovarvi gli odori di una trattoria fiorentina): la perfetta geometria della costruzione, della narrazione e del dialogo, – tutto questo fa delle Avventure di Pinocchio il capolavoro della letteratura toscana dopo Galileo».

Naturalmente non mi sfugge che a partire dal sedicesimo capitolo – dove compare la «bella bambina dai capelli turchini» – il protagonista sembra percorrere una diversa strada, che molti definiscono «iniziatica». Ma anche dopo l’entrata in scena della figura femminile in cui Citati vede «l’immortale Signora degli Animali, La Regina delle Metamorfosi, la prudente e scrupolosa Tessitrice dei destini» (e che per Giorgio Manganelli è la «querula, anche crudele, […] paziente, irriducibile nemica del burattino Pinocchio»), ciò che più mi interessa, mi colpisce, mi seduce, è l’asciuttezza della scrittura collodiana, la concretezza delle immagini, la sobria descrizione di esterni e interni toscani della seconda metà dell’Ottocento. 

Non c’è memoria alcuna di tali luoghi nella scena di Giuseppe Stellato: un ampio spazio dove spesso nevica e non splende mai la vivida luce dei giorni di sole. Sospeso a mezz’aria, parallelo al proscenio, attira subito l’attenzione un grande tronco (che mi ha ricordato quelli del Macbeth e del Faust di Nekrosius), dal quale si stacca e cade a terra il ciocco che racchiude in sé lo spirito di Pinocchio. A sinistra, verso il fondo, una lastra metallica e due vecchie macchine da rumorista proclamano fin dal principio, e con fragore: «Questo è metateatro». (Quando si deciderà concordemente, nella Repubblica teatrale italiana, che per cinque anni almeno non si debba più riproporre la logora formula registica del «teatro nel teatro»?). Tra i pochi grandi oggetti presenti sulla scena ha particolare rilievo un bancone munito di sega circolare, dal quale fuoriesce a fatica, come al termine di un parto laborioso, il Pinocchio del trentenne Christian La Rosa, interamente vestito di nero (boxer, T-shirt, calze, scarpe, mezziguanti, nonché ginocchiere e gomitiere che simulano le articolazioni del burattino) e con appeso al collo – per ricordarci la sua natura lignea, vegetale – il ciocco da cui è stato estratto e che lo accompagnerà fin quasi alla fine. Un Pinocchio che non si trasformerà nell’angelico, malinconico e ben pettinato fanciullo dell’ingannevole locandina. Il Pinocchio inscenato da Antonio Latella e prodotto dal Piccolo Teatro di Milano non è uno spettacolo per bambini. 

In una conversazione, pubblicata nel programma di sala, fra Andrea Bajani e Antonio Latella (costantemente inclini al reciproco elogio), diverse affermazioni mi sono sembrate confuse o contestabili. Nel Pinocchio neo-nato di Latella, ad esempio, io non vedo «il generatore instancabile di linguaggio» che a detta di Bajani «sabota il mondo sbagliando la grammatica». Ci vedo invece un facitore di giochetti linguistici al tempo stesso troppo consapevoli e banali, che in parte, forse, vorrebbero divertire e non divertono affatto. E quando Latella elogia lo scrittore perché nel suo ultimo libro – il romanzo Un bene al mondo – riesce a tenere insieme il piano realistico e quello fantastico, penso che è esattamente ciò che ha saputo fare molto meglio Collodi e non ha saputo fare Latella nel suo spettacolo esasperatamente e stucchevolmente antinaturalistico, dove il grande accusato – per ragioni poco convincenti – è Geppetto. E quando Bajani osserva che il Pinocchio di Latella «da bugiardo per antonomasia, sembra l’unico a dire la verità», mi domando se la verità risieda nel serrato e ripetitivo turpiloquio con cui il burattino, a un certo punto, reagisce a un rimprovero della Fata. Ci sarebbe altro da dire sul testo a sei mani di Antonio Latella, Francesco Bellini e Linda Dalisi. Ad esempio, che la scenetta da commedia dell’arte con Arlecchino, Colombina e Pulcinella è indicibilmente noiosa. Ad esempio, che non vedo perché mai lo spettatore dovrebbe disgustarsi del pedagogismo sentenzioso e dei propositi emendativi di Geppetto, del Grillo e della Fata, e deliziarsi invece delle poco originali divagazioni intellettualistiche e didascaliche dei tre drammaturghi. 

Aggiungo conclusivamente i nomi degli attori, che oltre al già menzionato La Rosa – il migliore insieme a Massimo Speziani nella parte di Geppetto e Mangiafoco – sono Michele Andrei, Anna Coppola (Fata), Stefano Laguni, Fabio Pasquini (Grillo parlante), Matteo Pennese e Marta Pizzogallo. Tutti e otto hanno consentito con bravura al disegno del regista, che ha chiesto loro di parlare a voce altissima per buona parte dello spettacolo.