Il 2018 è stato scelto dalla Commissione Europea come «Anno del patrimonio». Anche la Svizzera è coinvolta nelle celebrazioni e, ancora per qualche mese, sarà possibile seguire le iniziative organizzate per l’occasione. È il caso della mostra Il patrimonio si racconta al Castello di Sasso Corbaro a Bellinzona, aperta al pubblico lo scorso 4 settembre e visitabile ancora fino al 7 ottobre.
Dopo la chiusura, rimarrà disponibile online sul sito del DECS una pubblicazione in cui sono presentati i soggetti culturali coinvolti nell’iniziativa, anche grazie alle immagini di Gabriella Meyer. Oltre a rientrare di diritto nelle celebrazioni europee, l’esposizione costituisce un momento utile per mettere in luce l’operato della Divisione cantonale della cultura e degli studi universitari, che molto sta facendo per rigenerare il proprio rapporto con i cittadini. Troppo spesso sono solo gli specialisti ad apprezzare il lavoro delle istituzioni pubbliche dedicate ai beni culturali, mentre i più ne ignorano l’operato.
Così, quando si presenta la necessità di contenere i costi, molti cadono nell’insidia di credere che i tagli alla cultura siano in definitiva un male di poco conto. In questa iniziativa, invece, la macchina della cultura mostra i suoi ingranaggi e racconta che il patrimonio non è un concetto astratto, bensì è qualcosa di molto vicino a noi e continuamente intrecciato al vivere quotidiano.
Sono nove i soggetti afferenti al DECS coinvolti nel progetto: Archivio di Stato, Sistema bibliotecario, Centro di dialettologia, MASI, Osservatorio culturale, Pinacoteca Züst, Sistema per la valorizzazione del patrimonio culturale e Ufficio dei beni culturali. Al loro fianco, è stato coinvolto anche il Laboratorio di cultura visiva della SUPSI. Curatore è Giulio Zaccarelli, docente nell’ambito del corso di laurea in Architettura d’interni, e il progetto allestitivo è diventato la tesi di laurea di due studenti, Giulia Martini e Gianluca Crippa. I temi su cui lavorare in occasione dell’Anno del patrimonio erano molti, ma la scelta del gruppo di lavoro è stata di evitare un approccio onnicomprensivo e di focalizzarsi piuttosto sul patrimonio in quanto valore comune, di cui ognuno è portatore. Non solo oggetti al di là di un vetro, ma proprietà di ciascuno di noi, dall’uomo qualunque allo specialista. Non fonte di separazione e discordia, ma legame transnazionale che accomuna pur nelle differenze. Zaccarelli spiega quindi come il punto di partenza sia stata l’eliminazione di ogni tecnicismo e termine tecnico, concetti difficili che finiscono troppo spesso per spegnere l’interesse del visitatore medio. Si è invece individuato un criterio che favorisse solo oggetti, prestati dai vari istituti culturali coinvolti, che suscitassero la meraviglia e la curiosità dell’osservatore oppure che gli permettessero di fare collegamenti con il proprio vissuto e il proprio immaginario.
Il percorso espositivo è diviso in vari ambienti, seguendo l’architettura non sempre scorrevole del castello, cercando di definire spazi fra loro ben diversificati, ma sempre connessi. La visita inizia al piano terra, dove viene proiettato un filmato realizzato dalla RSI con immagini di quel patrimonio più difficile da portare fra le mura di un edificio: meraviglie della natura e patrimonio immateriale.
Si passa alla Sala Poglia, notevole già di per sé, dato che ospita la boiserie seicentesca prelevata dalla Villa Emma di Olivone. Considerato l’ambiente, qui il curatore ha voluto allestire una vera e propria Wunderkammer, con pezzi dalle collezioni cantonali ticinesi, dal Settecento ad oggi. Un insieme di oggetti eterogenei, presentati con un’alta densità, mischiando vari livelli e vari registri, di modo che il visitatore riconosca anche pezzi che hanno fatto parte dalla sua vita, per sottolineare la vitalità del patrimonio e il rapporto che sussiste fra di esso e il nostro quotidiano.
Seguono le stanze dedicate al nucleo concettuale dell’esposizione: chi si occupa del patrimonio in Ticino? Cinque parole chiave – tutela, studio, conservazione, valorizzazione e trasmissione – per raccontare i nove soggetti coinvolti e la filiera che caratterizza il patrimonio e il suo viaggio fino a noi.
L’allestimento è stato sviluppato per essere coerente rispetto ai contenuti: gli organizzatori non volevano in nessun modo dare una visione estetizzante, si sono invece soffermati su una tipologia di riflessione non consueta, dimenticando per un attimo i capolavori e dando spazio al mondo di significati che può veicolare il più semplice degli oggetti.
Un’ultima considerazione è che un simile lavoro di ricerca sul patrimonio culturale del territorio ticinese potrebbe essere di gran lunga potenziato se fosse applicato ad esso anche un approccio di tipo ecomuseale. Nella definizione data nei primi anni Settanta da Georges-Henri Rivière e Hugues de Varine l’ecomuseo non è un museo tradizionale, ma «mostra l’uomo nel tempo e nello spazio, nel suo ambiente naturale e culturale, invitando la totalità di una popolazione a partecipare allo sviluppo di esso». Non più solo oggetti per raccontare il patrimonio, ma anche persone invitate a scegliere cosa mostrare e a raccontare le storie racchiuse in ogni frammento del loro e del nostro mondo culturale.