Esporre significa turbare l’armonia, disturbare la coscienza del visitatore, mettere in discussione le sue convinzioni; ma vuol dire anche suscitare emozioni e aprire la mente alla curiosità. Questa è la filosofia del MEN di Neuchâtel, un museo di etnografia da sempre all’avanguardia. Quale luogo è più adatto dunque per una riflessione sul tema dell’acquisizione, conservazione e presentazione al pubblico di reperti che aiutino l’uomo a capire la realtà mondana?
Il Museo di etnografia di Neuchâtel propone una mostra intitolata L’impermanenza delle cose, sull’onda di antichi princìpi filosofici che vanno dal Buddha al Panta rei di Eraclito. Curiosa e ricca di spunti a partire dal manifesto che la illustra: un collage, in forma di mosaico, con le immagini rimpicciolite di 4700 oggetti scelti tra quelli presenti nelle collezioni dell’istituto neocastellano; e dove il logo del museo al centro, appare formato dai reperti esposti. Un gioco grafico e un trompe-l’oeil accattivanti, che fanno capire subito come un oggetto non debba essere considerato un’entità che esaurisce il suo messaggio in sé stesso, ma sia multifunzionale, uno strumento che suona in un’orchestra. E infatti se la mostra sarà permanente non lo saranno gli oggetti che la illustrano.
Come si è arrivati a concretizzare questa filosofia museografica? Il direttore Marc-Olivier Gonseth e il conservatore Grégoire Mayor (da maggio nuovo direttore), hanno fatto di necessità virtù. Infatti il vecchio edificio che ospitava le collezioni stabili del museo, la Villa de Pury situata in un magnifico parco collinare che domina la città con vista lago, doveva essere riparato e ristrutturato secondo criteri museografici moderni e servire da nuovo spazio espositivo; andavano spostati ben 50mila oggetti del fondo principale del museo. Reperti di interesse etnografico della più varia natura, dalla lunga o breve storia, provenienti da culture «altre» come dalla nostra. Allora perché, già che ci siamo – hanno pensato Gonseth e compagni nel 2006 – non approfittare dell’occasione per riprenderli in mano e catalogarli, visto che bisognava trovar loro una nuova sistemazione? E qui una prima considerazione: sembravano dover rimanere per sempre al loro posto... e invece rieccoli in ballo come fantasmi, poiché il tempo è trascorso e le tecniche museografiche sono cambiate. L’impermanenza delle cose, appunto.
Oggetti: perché sono arrivati al museo, in quale contesto culturale, come e a quale scopo conservarli? E ancora: come sceglierli dal mucchio e come presentarli al pubblico? Una riflessione quindi sulle collezioni, sui compiti del museo e di conseguenza anche sul lavoro dell’etnologo che ne sta a monte.
Un lavoro durato una decina d’anni che si cerca ora di illustrare in un’esposizione che dia al visitatore almeno un’idea delle complesse problematiche che il museo deve affrontare quotidianamente. Una serie di sale da visitare senza un fil rouge particolare, ma con spazi autonomi che presentano i molti aspetti della storia del MEN. Come esporre ad esempio il nostro corpo o quelli degli altri, soggetto tipico per un museo di etnografia? La mummia egizia di Nakht-ta-Netjeret, ricevuta nel 1838, è un must; ma in mostra non viene presentata, troppo scontato. Al suo posto ci sono invece le scansioni effettuate nel 2015 con una Tac dall’Istituto di medicina legale dell’Università di Zurigo, con le quali la mummia è stata esplorata in tutti i suoi aspetti più nascosti, scoprendo segreti come gli amuleti dissimulati al suo interno. A fare da cornice al corpo virtuale, ci sono immagini di corpi reali di indiani Cree, di un cacicco Guayaki, di ragazzi creoli o di un esploratore-geologo in Angola; potere evocatore della fotografia che si sotituisce alla realtà.
Suggestivo un altro spazio riservato al tema della seduzione e del potere. Una straordinaria raccolta di una sessantina di diademi di piume della Papua Nuova Guinea indossati dagli uomini nel corso di cerimonie tribali, donata al museo di Neuchâtel dalla figlia di una indigena sposata con un missionario laico vallesano, giunta in Svizzera dopo essere rimasta orfana. Belli... ma ingombranti e delicati. Dove e come conservarli? Un problema da risolvere ogni volta che il MEN riceve una donazione: si devono creare competenze specifiche, trovare spazi e soprattutto soldi per la gestione. In questo caso è stato necessario smontare i preziosi diademi e mantenerli in luogo asettico perché non si deteriorassero. Nella nostra realtà invece (ecco il confronto tra noi e gli altri) le piume sono spesso un attributo femminile, che ha più a che fare con la seduzione e il divertimento che non con lo status sociale. In mostra è stato allora ricostruito un improbabile cabaret che ci ricorda il Moulin Rouge più del museo nel quale ci troviamo.
Un altro tema di indagine è la diplomazia culturale e museografica, ambientata in una ipotetica ambasciata. In una sala dalle luci soffuse vengono esposti i regali culturali ricevuti dal MEN nel corso degli anni da parte di governi stranieri e partner di mostre del passato: bambole russe dei tempi della guerra fredda, raffinate ceramiche imperiali giapponesi, oggetti religiosi dal Re del Bhutan e altro ancora. Ma dal fondo della sala, dietro una rete metallica e un cancello col lucchetto, si affacciano una serie di bauli in fibra vegetale provenienti dall’Afghanistan, acquistati da un antiquario e salvati così dalla distruzione di una guerra infinita. Viene in questo modo evocata, aldilà dell’ufficialità dei rapporti diplomatici, la presenza inquietante di quelli che non hanno voce, dei profughi e delle vittime dimenticate di tutte le guerre.
La mostra è come sempre accompagnata da manifestazioni didattiche e ricreative per giovani e adulti; una buona abitudine per far vivere il museo a 360 gradi.