Il Natale secondo Jean-Paul Sartre

Il racconto della natività nel teatro del filosofo francese
/ 23.12.2019
di Daniele Bernardi

Se, come ebbe a dire Simone De Beauvoir, è difficile immaginarsi un Jean-Paul Sartre armato di fucile e in divisa, più ancora lo è figurarselo nei panni del Re Magio Baldassarre in visita al Cristo in fasce. Eppure fu proprio il capofila dell’esistenzialismo francese – il filosofo-scrittore che, in Les mots, scrisse «l’ateismo è un’impresa crudele e di lungo respiro: io credo di averla condotta in porto» – a dedicare (e interpretare) da soldato-prigioniero un intero dramma al tema della natività. Ma non ci si inganni: per Sartre, che della guerra fece un’esperienza particolare, non sanguinosa (non conobbe il fango della trincea, la violenza dello scontro fisico), il racconto della venuta al mondo del Salvatore non rappresenta né un incrinarsi del pensiero, né un cambio di prospettiva.

È il 1940 quando viene catturato coi suoi compagni d’armi e, dopo vari spostamenti, trasferito nel campo di detenzione di Treviri, nell’ovest della Germania. Allora ha trentacinque anni e, anche in quelle non facili condizioni, riesce agilmente a dedicarsi alla stesura dei Carnet de la drôle guerre, al suo celebre L’être et le néant e alla conclusione del romanzo L’âge de raison. Qui, dove tiene corsi su Heidegger ai parroci detenuti e ha frequenti relazioni con altri sacerdoti, nasce l’idea, su richiesta di quest’ultimi, di redigere un testo teatrale in vista della sera del 24 dicembre.

Sartre partecipa attivamente alla vita comunitaria del campo; la guerra, per lui, è l’occasione di rendersi cosciente «dell’assoluta importanza della socialità dell’uomo» e, di conseguenza, del bisogno di un impegno intellettuale volto a fini concreti. È quindi con questo spirito che si dedica alla stesura di Bariona o il gioco del dolore e della speranza (Christian Marinotti, 2019) un vero e proprio racconto di Natale che vede protagonista un capo-villaggio nella Giudea oppressa dai romani (chiaro riferimento alla Francia occupata) all’epoca della nascita del Cristo.

Raffrontato alle altre, note pièces del teatro sartriano – un teatro che, oggi, nel panorama della scena italofona, si tende a dimenticare – il dramma risulta certo meno convincente. Niente a che vedere con la forza di Huis clos o col cupo Les Séquestrés d’Altona; lo stesso Sartre ebbe delle riserve quando gli ex-compagni di prigionia gli chiesero di pubblicare il copione. Quel che risulta interessante è invece il contesto che vide svilupparsi la drammaturgia. Infatti, se si dovesse immaginare un allestimento, questo non potrebbe non tenere conto del racconto di cui l’opera è circondata: un gruppo di soldati-artisti che, in un campo di concentramento, imbastisce un rudimentale spettacolo.

Altro aspetto interessante è la maniera con cui Sartre innerva del proprio pensiero la storia della grotta di Betlemme. Infatti, la vicenda di Bariona, che di fronte agli ulteriori tributi richiesti da Roma, impone alla comunità di non procreare, non manca di rimandi al problema centrale della filosofia sartriana: la libertà dell’uomo e la responsabilità nei confronti del proprio destino. Per Sartre, la questione che Dio esista o non esista non è interessante poiché l’eventuale presenza divina – la cui onnipotenza è radicalmente messa in discussione dall’arbitrio umano – non libera l’uomo dall’essere artefice della propria sorte. Ecco che in battute quali «contro un uomo libero, Dio stesso non può nulla» e «il Cristo è venuto ad insegnarti che sei responsabile verso te stesso della tua sofferenza» occhieggia quindi questo discorso: per quanto la vita si possa accanire su di noi, ciò che conta è quel che sapremo fare di ciò che l’esistenza ci ha resi; questo minimo spazio di manovra ha il nome di libertà.

Commovente è anche come, nel testo, Sartre scelga di venire fraternamente incontro al bisogno dei compagni consegnando loro, finalmente, l’immagine della natività. In «un piccolo momento di tregua» nella trama, proprio quando Bariona si incammina sulla montagna per uccidere il Cristo, ecco che l’attore che veste i panni del presentatore di immagini indica al pubblico il bimbo nella mangiatoia: «siccome oggi è Natale», recita, «avete il diritto di esigere che vi si mostri il presepe. Eccolo. (...) L’artista ha messo tutto il suo amore in questo disegno, ma voi lo troverete forse un po’ naïf». Segue invece, naturalmente, una profonda descrizione di Maria in cui è sottolineato come «tutte le madri sono così attratte a momenti davanti a questo frammento ribelle della loro carne che è il loro bambino e si sentono in esilio davanti a questa nuova vita che è stata fatta con la loro».

Bariona o il gioco del dolore e della speranza è quindi un libretto singolare, non molto conosciuto, ben introdotto da una lunga nota di Antonio Delogu in cui è descritta la genesi del dramma e il pensiero dell’autore. Se esso, da un lato, rappresenta un insolito accesso all’opera sartriana, dall’altro può più semplicemente essere uno spunto per chi intende fare dono ai propri cari di un originale chiave di lettura della giornata del 25 dicembre.