Il meglio e il peggio del 2016 discografico in italiano

Come ormai consolidata abitudine, il moto retrospettivo sull’anno che si chiude ci porta qui a cercare di isolare il buono e il meno buono della produzione discografica 2016
/ 27.12.2016
di Zeno Gabaglio

Il meglio: Niccolò Fabi – Una somma di piccole cose

Nella canzone italiana dell’ultimo trentennio esiste un solco invalicabile che separa il mainstream dal circuito indipendente, un orrido baratro che divide sì gli artisti ma anche i pubblici di riferimento, le modalità autoriali e gli approcci critici. Con il disco Una somma di piccole cose Niccolò Fabi è sorprendentemente riuscito a scavalcarlo, a piè pari e senza farsi neanche un graffio. Il background del musicista romano è notoriamente legato al mainstream, nella declinazione di un cantautorato pop intelligente e raffinato (ma così pop da non sfigurare nella vetrina di Sanremo o di Un disco per l’estate) che il disco pubblicato ad aprile ha fondamentalmente rimesso in discussione.

Ma forse ancor più in discussione è stato messo il giudizio degli ambienti indipendenti, che loro malgrado in questo disco hanno trovato sintassi e grammatiche musicali incredibilmente vicine al proprio credo: un album sentito e curato, acustico ma mai languido, crudo e pure tagliente, intimo ma anche civile. E questa è la dimensione più disarmante: semplici canzoni che dall’elaborazione soggettiva parlano a tutti, evitando retorica o banalità, intense dalla prima all’ultima traccia senza decadere neanche un solo momento.

Il buono: Motta – La fine dei vent’anni

Un tratto caratteristico dell’autorialità musicale in lingua italiana – malgrado le ben note crisi di commercio e di attenzione – è la continua spinta al rinnovamento. Ogni anno sono infatti molte le proposte di artisti esordienti; forse il tempo non le confermerà tutte, ma comunque vanno a costituire una pregiata linfa per il secolare albero della cultura italiana. Tra le novità più apprezzabili e apprezzate del 2016 c’è il disco La fine dei vent’anni di Motta, il trentenne cantautore pisano Francesco Motta. L’intero arco dell’album presenta invero esiti discontinui tra giovanilismo e maturità, per una portata espressiva che – sulla strada della perfezione – dev’essere ancora ben calibrata. Ma il singolo La fine dei vent’anni è la classica rovesciata in area che vale il prezzo dell’ingresso: una sferzata che mescola estasi e rabbia in un destabilizzante andamento psichedelico. Una pietra miliare per le nuove frontiere della canzone italiana.

Il peggio: Laura Pausini – Laura Xmas

«Lavorare con una cantante così importante nel mondo è stato molto emozionante. È una delle migliori interpreti che io abbia mai incontrato, è una persona carismatica ed è stato un vero piacere lavorare con lei. Laura è molto versatile, può cantare davvero qualsiasi cosa». Si fosse giustificato con un laconico «tengo famiglia» il produttore e arrangiatore americano Patrick Williams sarebbe stato senz’altro più credibile, perlomeno umanamente; anche perché le sue collaborazioni con Frank Sinatra e Barbra Streisand non possono che far a pugni con la seconda frase dell’affermazione e con la sua stessa partecipazione al disco Laura Xmas.

Fatto sta che – complice l’esperto musicista già nominato al Pulitzer e all’Oscar – per la dodicesima produzione in studio Laura Pausini ci ha riservato una sconvolgente novità: un disco di cover natalizie. Poco male, si dirà, così almeno non si sono inondate radio e televisioni dell’abituale melassa grondante dai suoi brani originali. No, invece, perché il risultato è forse ancora peggio: Jingle Bells l’avevano effettivamente già maltrattata in molti, ma così piatta e falsamente swing non la si era mai sentita. E un Adeste fideles così soffocato nella plastica non l’avrebbe potuto immaginare nemmeno un venditore di presepi filippini al mercato di Fuorigrotta. L’apice della piramide capovolta è però costituito dall’Astro del ciel che chiude il disco: al sorgere degli abbellimenti e delle armonizzazioni della linea vocale è piuttosto netta la percezione di un bambino che – nella sua grotta lontana tempo e spazio – sofferente trema.