Dove e quando
Piero Guccione. La pittura come il mare. Museo d’arte Mendrisio. Fino al 30 giugno 2019. Orari: da ma a ve 10.00-12.00 / 14.00-17.00; sa, do e festivi 10.00-18.00.

Piero Guccione, Piccola spiaggia, 1996-1998 (Collezione Giuseppe Iannaccone, Milano)


Il mare e oltre

A Mendrisio una retrospettiva dedicata al pittore Piero Guccione
/ 17.06.2019
di Alessia Brughera

L’incontro con il mare avveniva tutti i giorni: con indosso la sua tuta da lavoro blu, Piero Guccione si recava ogni mattina a contemplarlo, a coglierne la luce e la vastità. Lo ha scrutato con gli occhi e con l’anima per più di quarant’anni. A Scicli, dov’era nato nel 1935, guardare il mare era stata per lui un’esperienza meravigliosa fin da bambino, quando si dirigeva con il carretto dal paese verso la spiaggia e scopriva lentamente quell’immensa distesa d’acqua che con il suo dolce movimento gli appariva come una visione paradisiaca.

Dal suo mare Guccione si era allontanato alla metà degli anni Cinquanta per trasferirsi a Roma; qui era entrato in contatto con i pittori neorealisti della Galleria del Pincio, aveva ammirato le opere degli espressionisti della Scuola di via Cavour e aveva frequentato Renato Guttuso, siciliano come lui, di cui era stato assistente per qualche anno all’Accademia di Belle Arti.

Dopo sporadici ritorni, al suo mare Guccione si era ricongiunto definitivamente nel 1979, facendo della frazione modicana di Quartarella il luogo privilegiato da cui poterlo osservare per il resto della sua esistenza.

Mai, l’artista, avrebbe potuto dar vita alle sue sconfinate marine se il rientro decisivo alla terra d’origine non fosse avvenuto. Forte era in lui il desiderio di riannodarsi alle proprie radici, di unirsi nuovamente, e totalmente, a quel mare che necessitava di avere sempre vicino per poter dar voce alla propria memoria. Dipingerlo era la sua splendida ossessione, l’unico modo di rappresentare la verità del proprio sentire.

Pittore distante da ideologismi e provocazioni, mosso da una non convenzionale «purezza d’intenti», per usare le parole con cui Guttuso lo descriveva, Guccione, forse proprio per questo motivo, ha destato non pochi apprezzamenti da parte di grandi letterati e autorevoli critici (Sciascia, Moravia, Testori, Jean Clair, solo per citarne alcuni) ma è stato invece negligentemente dimenticato dalla storiografia nella ricostruzione dell’arte italiana novecentesca.

A questo maestro delle distese d’acqua taciturne e solenni il Museo d’arte di Mendrisio dedica la prima retrospettiva dopo la sua scomparsa, documentando con oltre cinquanta opere, tra oli e pastelli, la produzione dei decenni trascorsi in Sicilia dagli anni Settanta fino alla morte.

Con la sua pittura, mirabile sintesi di figurazione e astrazione, indefinita eppur sempre saldamente vincolata alla realtà, Guccione dipingeva il mare come se nessuno lo avesse mai fatto prima, elevandolo a spazio senza confini e senza tempo, a luogo quieto e armonioso lontano dal caos del mondo.

Su di lui esercitava un’attrazione senza pari l’impalpabile linea in lontananza che separa il mare dal cielo: «Inconsciamente mi adopero per farli incontrare», diceva, e con l’illimitata gamma di nitidi azzurri che utilizzava riusciva a restituire appieno quell’orizzonte sfuggente.

Il senso d’infinito affiorante dalle sue marine gli era stato trasmesso dall’incontro con l’opera di Caspar David Friedrich in una mostra parigina del 1977; l’artista romantico gli aveva fatto capire quanto la pittura potesse interpretare l’inafferrabile potenza del creato. Sebbene epurata dall’angoscia e dallo smarrimento tipici del maestro tedesco, la visione della natura di Guccione, più misurata e serena, è sempre stata capace di mantenere il medesimo stupore per la grandiosità del paesaggio.

Allo sguardo meravigliato con cui osservava il mare, il pittore siciliano accostava la perizia della mano, che con fare sicuro e metodico dava corpo alle atmosfere impresse nella mente. Rigoroso, esigente, quasi maniacale nel suo lavoro, Guccione era convinto della necessità della pratica quotidiana condotta con inflessibile tenacia.

Nelle prime vedute degli anni Settanta la distesa d’acqua viene resa dall’artista con un colore pastoso; le linee dei tralicci elettrici, i profili dei muretti e le traiettorie delle correnti ne cadenzano l’estensione, mentre ombre dai fluidi contorni ne offuscano talvolta parte della superficie. Belle, nella mostra mendrisiense, le opere Tramonto a Punta Corvo, del 1970, Il cavo, il muro e le linee del mare, del 1973, e Ombra sul mare, del 1973-74.

Un mare increspato dalla brezza, intessuto di vibrazioni tanto sottili da riuscire a evocarne le innumerevoli sfumature, appare invece nei lavori degli anni Ottanta e Novanta, dove un orizzonte sempre più basso consegna ampio spazio a cieli cristallini, come avviene ad esempio in dipinti quali Dopo il tramonto, datato 1985-87, e La fine dell’estate, del 1987-89.

Diventano poi più limpide e rarefatte le marine degli ultimi anni: le stesure di azzurro sono ora piatte e luminose, animate timidamente da lievi variazioni tonali. Emblematica di questa nuova fase è la splendida opera intitolata Luna d’agosto, realizzata nel 2005, in cui il pittore raggiunge un alto grado di astrazione senza smarrire il contatto con il dato reale.

Accanto agli oli la rassegna raccoglie una selezione di pastelli che testimoniano quanto questa tecnica, a cui Guccione si accosta verso la metà degli anni Settanta per poter esprimere in modo più immediato le proprie emozioni, abbia influito in maniera rilevante sulla produzione su tela. È proprio il pastello, difatti, a insegnare a Guccione a fondere luci e ombre e soprattutto a muoversi su quell’esile margine tra pienezza e vaghezza delle forme che gli ha permesso di dipingere il mare come eco di infiniti silenzi.