Dove e quando
Henriette Zéphir, Collection de l’Art Brut, Losanna (11, av. des Bergières). Orari: ma-do 11.00-18.00. Fino al 30 aprile 2017. www.artbrut.ch


Il flusso delle energie latenti

La Collection de l’Art Brut di Losanna dedica una personale a Henriette Zéphir (1920-2012)
/ 20.03.2017
di Daniele Bernardi

È il 1961 quando Henriette Zéphir avverte la presenza di Don Carlos, la sua «guida». Ha superato da poco i quarant’anni e fino ad ora non ha ancora dipinto – da ragazza le sarebbe piaciuto diventare «disegnatrice industriale», ma la famiglia si è opposta. Ciononostante, ad oggi la sua vita è stata intensa: un’infanzia felice, trascorsa assieme ai nonni nelle campagne della Haute-Garonne; un matrimonio che le ha permesso di lasciare il contesto familiare di Toulouse; una serie di spostamenti in Marocco, in Guyana francese, in Martinica; due figli che la amano, e che vivono con lei da quando è rientrata in Francia e si è separata.

Eppure niente è paragonabile a quanto sta per accadere. Un giorno, improvvisamente, Henriette sente che qualcosa le è accanto: è come se ne potesse percepire la fisicità. Poi, uno spirito si palesa dandole un ordine preciso: lavorare sette giorni consecutivi, armata di carta e matita, affinché l’«apprendistato iniziatico» possa compiersi. Allora, la donna si mette all’opera: seguendo la voce di quello che dirà essere il «compagno di una vita anteriore», realizza decine e decine di disegni fatti a penna, con colori, pennino e inchiostri; e mentre negli anni si impegna nel dare corpo alle «energie» che la toccano, Jean Dubuffet viene a conoscenza del suo lavoro.

Nel 1966 il grande pittore francese ha ripreso le sue indagini in materia di Art Brut – concetto da lui ideato nel 1945 che designa pratiche espressive aliene all’accademismo, al successo, alla ricerca del consenso e all’idea del «bello». Soprattutto, i creatori dell’Art Brut sono per lo più autodidatti e non avvertono il bisogno di affermarsi come artisti, poiché la loro dedizione è pura e incondizionata. Di fatto, nel lavoro di queste persone spesso maltrattate dalla vita (pazienti psichiatrici, ammalati, carcerati, analfabeti, solitari...) non c’è traccia di vanità.

Perciò, quando si chiede ad Henriette di poter acquistare i suoi quadri, da principio lei non capisce ed è reticente: non né è autrice, né proprietaria dell’opera. Bisogna invece interrogare le «guide» per ricevere l’autorizzazione. Così avviene e Dubuffet, infine, compra una ventina di disegni. Molto tempo dopo, nel 2016, grazie a una donazione da parte degli eredi Zéphir alla Collection de l’Art Brut, altre composizioni vanno ad arricchire gli archivi del museo losannese che oggi dedica una personale alla donna, scomparsa nel 2012.

Per chi non fosse mai stato in questo luogo incredibile, la circostanza potrebbe essere l’occasione per conoscere una delle realtà più interessanti del nostro Paese. L’esposizione si trova al primo piano del castello di Beaulieu, da tempo divenuto centro nevralgico dell’Art Brut. Superati i saloni in cui campeggiano i quadri di Aloïse Corbaz, di Adolf Wölfli, di Henry Darger, di Carlo e molti altri, si entra in una stanzetta bianca, allestita con sobrietà ed eleganza. Qui, una scelta accurata dei lavori della Zéphir riceve il visitatore, mentre dietro una tenda bianca il video di Mario Del Curto e Bastien Genoux, Henriette Zéphir, le souffle des esprits, viene trasmesso in continuazione.

L’insieme mette in evidenza le tre «zone» principali del percorso di Henriette: il primo periodo, che va dal 1961 al 1966, dove si vede come il manifestarsi di Don Carlos abbia inaugurato una fase «preparatoria» in cui prevalgono ricami di forme complesse, «dentellate o merlate, foderate da molteplici orli e da frange»; la seconda parte, forse la più impressionante, che va dal 1966 al 1998, dove la scomparsa delle «linee angolose» dà spazio a contorni ovoidali, a sfere, spirali, tentacoli ed eruzioni – quasi che la Zéphir fosse entrata in contatto con «un universo in formazione» (particolarmente intense le tavole in bianco e nero); infine l’ultimo atto, dal 1998 al 2012, segnato da «condensazione e sistematicità»: qui le precedenti deflagrazioni lasciano il posto a forme «classiche», definite e semplici ma a loro volta contenenti fittissimi intrecci di colore.

Il faticoso compito di Henriette (sotto il dominio delle «guide» poteva disegnare per ore e giorni, ignorando i limiti del dolore fisico) era quello di captare e trasmettere il flusso delle energie latenti. Oggi mentre il visitatore si trova a fronteggiare i microcosmi racchiusi nei suoi quadri, la vibrante concentrazione di quelle forze sembra voler risucchiare sguardo e attenzione. Usciti dal museo, a lungo, serrando gli occhi è ancora possibile veder volteggiare le masse dei segni, come se queste fossero stormi di uccelli in volo.

Non meno interessanti sono il piccolo catalogo della mostra, a cura di Anic Zanzi, con un intervento di Alain Bouillet, e il sopracitato documentario Henriette Zéphir, le souffle des esprits. In quest’ultimo è dato conoscere la persona di Henriette in tutta la sua delicata, graziosa simpatia. Qualora qualcuno, ingenuamente, si aspettasse una specie di invasata o un’ossessa, si prepari ad essere piacevolmente deluso: si tratta di stereotipi infelici, che sarebbe meglio dimenticare. Henriette Zéphir, oltre ad avere un meraviglioso senso dell’umorismo e una risata contagiosa, possiede un equilibrio sobrio e umile, capace di affascinare e far sorridere.

Ancora una volta dunque la Collection de l’Art Brut offre, a chi sa cogliere la profondità di queste vite, la visione di un universo vasto e autentico, che nulla ha da spartire con l’isteria imperante e col mercato dell’arte contemporanea. La mostra chiuderà il 30 aprile 2017 – in attesa delle prossime proposte del museo, ci si augura che questa abbia tutta la risonanza che merita.