Anche quest’anno, l’edizione del Festival Internazionale del Teatro (FIT) – la 26esima – ha mantenuto la promessa di far scoprire facce interessanti della scena contemporanea. Non potendo riferire di ogni spettacolo almeno possiamo certificare che molte delle proposte hanno messo a fuoco alcune realtà del nostro tempo particolarmente significative. Ne sceglieremo solo alcune. A cominciare dalla danza con Rosas Danst Rosas di Anna Teresa De Keersmaeker e Cut della Compagnia di Philippe Saire. Inaugurando il cartellone della danza di LuganoInScena, Rosas la gran sala del LAC ha accolto anche molti abbonati, un pubblico poco propenso a proposte al di fuori dai canoni tradizionali. Una scelta coraggiosa che la stragrande maggioranza in platea ha accolto con entusiasmo, il tributo a un lavoro che al suo debutto (1983) non fu ben recepito ma che, nonostante la sua longevità, mostra ancora l’incredibile freschezza del suo linguaggio coreografico precursore e complesso con un’esecuzione perfetta, con una grammatica meticolosa ed estenuante nei cento minuti di Laura Bachmann, Yuika Hashimoto, Laura Maria Poletti e Soa Ratsifandrihana, quattro straordinarie danzatrici.
Un ulteriore sussulto coreografico il FIT l’ha offerto proponendo Cut della Compagnia di Philippe Saire. Da uno spunto autobiografico (la fuga dall’Algeria della famiglia del coreografo) Cut agisce sul palco del LAC separato in due parti con il pubblico seduto su gradinate che si confronta con altrettante separate azioni: prima da un lato poi dall’altro in un mutuo ricambio. Il tutto si ricompone come un puzzle affascinante e sorprendente dove le due dimensioni si intrecciano senza svelarsi, ma aprendosi per un verso a un mondo felice lasciato precipitosamente, per poi passare al suo contrario verso uno sradicamento prigioniero di inquietanti mura di scatole di cartone. Intrigante, intelligente e molto applaudita, la visione di Saire trova un’ideale soluzione danzata grazie a Victor Dumond, Lazare Huet, Maïté Jeannolin, Claire Lavernhe e Antonio Montanile.
Un terzo e ultimo esempio di eterogeneità «borderline» di stampo teatrale che merita di essere segnalato è SU L’UMANO SENTIRE «Maneggiami con cura» (cap.2) di Officina Orsi/Rubidori Manshaft, il seguito di un percorso di indagine iniziato l’anno scorso con Souvenir di Lugano (prima ancora con 12parole/7sentimenti) ma questa volta con una sostanziale differenza nella sua profondità filosofica e con una visione teatrale subliminale di particolare efficacia. Personaggi, persone comuni, svelano il sentimento dell’assenza. Testimonianze raccolte in un montaggio filmato che il pubblico segue in cuffia da due differenti monitor. Sullo sfondo fa da scenografia l’immagine fissa di un salone vuoto di cui si percepiscono rumori e presenze. Rubidori è in scena. Seduta silenziosamente fra i due schermi. Un canto flebile chiuderà la sua «performance». Toccante e profonda, l’installazione preannuncia nuovi e intriganti sviluppi drammaturgici: in sintonia con il FIT.
Le transumanze di Cristina Castrillo
La recente produzione del Teatro delle Radici di Cristina Castrillo ha mostrato il suo lato simbolico riassumendo le tensioni creative che hanno nutrito le visioni teatrali della regista argentina. In Transumanze c’è il senso della vita che già nel titolo ci accompagna verso uno spettacolo immerso in un cupo senso di lontananza per un viaggio a bordo della nave della tristezza, della nostalgia, della sofferenza. Cinque personaggi in scena, tre donne e due uomini, incarnano tutto ciò in un denso sviluppo poetico della fuga dalla propria terra, della paura del diverso, dell’incontro con il senso di abbandono immerso nel flusso di una migrazione senza fine che ci assedia con i suoi fantasmi. Transumanze è un lavoro di attenta ricucitura dell’anima, un’architettura di sentimenti costruiti attorno a oggetti smarriti e conservati gelosamente come raccontano le righe che accompagnano la locandina: «situazioni, lingue, paure, mappe distrutte».
Il tutto viene avvolto da Cristina con una pudica distanza narrativa. Non c’è trama ma un filo tenue e senza soluzione di continuità che collega racconti senza età e generazioni di popoli abbandonati nell’esodo. Una compatta antologia della ricerca formale di Castrillo (aiuto regia di Camilla Parini) lungo un percorso di sintesi con le storie che ognuno ricama sul proprio vissuto, nella gioia e nel dolore, con la pazienza di viaggiatori di una transumanza dove umane greggi si spostano senza pastori verso confini sconosciuti, verso mete inospitali dove la speranza è un bene da nascondere. «Tutto cambia aspetto perfino il sole», sentenzia l’ungherese Cioràn, «tutto invecchia, perfino l’infelicità». La narrazione grafica dello spettacolo (Silvia Genta con la collaborazione di Giona Beltrametti, Manuel Mainieri e Raffaella Ferloni), le immagini filmate (Mario Conforti) e le fotografie (Martina Tritten) si legano per un risultato ricercato e sofferente, progetto laborioso e ben assecondato dagli interpreti: Bruna Gusberti, Massimo Palo, Nunzia Tirelli, Carlo Verre e Irene Zucchinelli. Si replica ancora al Teatro delle Radici dal 13 al 15 ottobre.